Ex giocatore di Serie A (ma, attenzione: giocatore lo è ancora!), direttore sportivo, presidente. Federico Casarin riesce a essere tutto questo: uomo di sport, ma anche uomo-azienda, in un’Umana Reyer che ormai è tornata ad essere una solida realtà del basket italiano: in sei anni dal ritorno in Serie A, sono cinque le qualificazioni ai play-off e altrettante quelle alle Final Four di Coppa Italia.
Casarin, cosa c’è in comune tra le tante attività legate al basket che svolge?
L’aspetto che le accomuna è la passione: la fortuna di poter fare di ciò che si ama un lavoro ti dà la possibilità di vivere quotidianamente nuove emozioni.
Qual è il ruolo più difficile, tra questi?
Direi che nessuno di questi compiti è difficile nel senso comune della parola. Anzi, sono convinto che ciascuno di essi sia prima di tutto una grande opportunità di crescita.
Si soffre di più in campo o da dirigente?
Nessun dubbio: da dirigente si soffre molto di più. Perché le partite si giocano in campo e il tuo compito è quello di prepararle al meglio, ma poi, dopo la palla a due, un dirigente non ha più la possibilità di intervenire direttamente, nel bene e nel male.
Le manca solo di fare anche l’allenatore: ci ha mai pensato?
In tutta onestà, no. Ma al tempo stesso ritengo che una qualità che non può mancare ad un dirigente sia anche la capacità di “pensare da allenatore”, per poter capire al meglio le varie situazioni, dentro e fuori dal campo.
Cosa ha pensato, due anni fa, quando il patron Brugnaro le ha chiesto di subentrargli alla presidenza dopo la sua elezione a sindaco?
Innanzitutto è stato un grande onore. Non nascondo di aver provato una grande emozione, unita ad una grande soddisfazione, perché so quanto valga per Luigi Brugnaro la Reyer. Essere stato scelto come suo “successore”, dunque, mi ha riempito di gioia.
Direttore sportivo dell’Umana Reyer maschile, ma presidente dell’Umana Reyer maschile, femminile e giovanile: che importanza ha questa triplice dimensione della società?
L’Umana Reyer è l’unica realtà italiana ad avere sotto la stessa proprietà due squadre in Serie A e un settore giovanile sia maschile che femminile. Tutto questo si traduce in un grande impegno, ma, al tempo stesso, in un grande onore. Anche perché l’Umana Reyer non vuole essere solo una realtà sportiva, ma anche avere una dimensione sociale e culturale e, di conseguenza, si assume una grande responsabilità nei confronti del nostro territorio.
Qual è il segreto del progetto dell’Umana Reyer?
Non esistono segreti, ma solo la grande voglia, da parte di tutti, di sacrificarsi l’uno per l’altro, lavorando insieme con determinazione ed entusiasmo, per raggiungere insieme gli obiettivi comuni.
Il basket è sport di grandi patron: quanto c’è di Luigi Brugnaro in questi dieci anni dall’avvio del suo progetto?
Luigi Brugnaro è l’anima, l’ideatore, ma soprattutto il cuore di questo progetto, non solo per gli importanti investimenti, ma ancor prima per la sua grande capacità di fare squadra e far sentire importante ogni persona del gruppo.
Da sempre l’Umana Reyer ha grande attenzione per i settori giovanili e per le iniziative rivolte alle nuove generazioni, come la Reyer School Cup, arrivata alla quarta edizione e che ha richiamato l’attenzione della Federazione. Il basket è scuola di vita?
Il settore giovanile è la base del nostro progetto. L’Umana Reyer vuole infatti essere parte importante per la crescita dei giovani, intesi come persone prima ancora che come atleti. E, in questo contesto, la Reyer School Cup è solo l’esempio più eclatante di questo movimento.
Un altro aspetto primario, nella filosofia di Brugnaro e della società, è quello della dimensione metropolitana della squadra vertice del territorio. Lei conosce bene tutte queste realtà, dalla doppia dimensione, d’acqua e di terraferma, della grande Venezia, a Treviso: ritiene che l’Umana Reyer sia diventata o stia diventando un punto di riferimento per l’intero movimento cestistico dell’area?
Fin dall’inizio, dieci anni fa, dell’avventura di Luigi Brugnaro con l’Umana Reyer uno degli obiettivi che ci si è posti è stato quello di racchiudere in un unico progetto inclusivo la grande città metropolitana che orbita intorno a Venezia. Attraverso la diffusione della pallacanestro, in tutti i suoi aspetti, passo dopo passo stiamo cercando di dare il nostro contributo per creare questo senso di comunità, che non si limita ovviamente al movimento cestistico.
Qual è stata la più grande soddisfazione di questi dieci anni?
In tutta sincerità, faccio fatica a dare una risposta univoca, perché, in questi dieci anni, abbiamo avuto la fortuna di toglierci più di una soddisfazione. Penso agli scudetti giovanili, le promozioni dalla B e le semifinali scudetto, sia al maschile che femminile, il raggiungimento delle Final Four di Basketball Champions League, la vittoria di una Coppa Europea femminile… E penso, oltre ad augurarmelo, che sia solo l’inizio, perché, di strada da fare, ne abbiamo ancora molta.
Quando giocava in serie A, come vedeva il suo futuro post campo? Aveva mai pensato di diventare presidente di uno dei principali club italiani di pallacanestro?
È sempre difficile staccare la spina e smettere di essere un giocatore. Ma già verso la fine della mia carriera professionistica avevo iniziato a seguire con attenzione il mondo della dirigenza sportiva, sia nel basket che nel calcio. E la passione per questi ruoli è cresciuta sempre più, con l’avvicinarsi del momento di chiudere con il professionismo.
A Mirano, dove sta continuando a giocare, compatibilmente con gli impegni con l’Umana Reyer, si è tolto anche la soddisfazione di giocare in prima squadra insieme a suo figlio: che sensazioni ha provato?
È stata una gran bella soddisfazione poter giocare con mio figlio Andrea nella stessa squadra. Di sicuro, l’emozione che ho provato la porterò sempre con me.
Com’è cambiato il basket rispetto a quando era ai vertici della sua carriera?
È cambiato molto, sia tecnicamente che fisicamente. Il basket attuale è molto più basato su fisicità e atletismo, magari tralasciando un po’ più la tecnica, rispetto a quando giocavo io. Ma ciò non toglie che questo rimane sempre lo sport più bello del mondo.
Lei è stato una bandiera di Sassari, a lungo a Treviso, adesso a Venezia… Tranne Milano, la pallacanestro italiana vive oggi lontano dalle grandi metropoli: fenomeno passeggero o c’è un perché?
Io penso che il basket debba assolutamente tornare nelle metropoli, perché le grandi città possono essere un veicolo importante per l’intero movimento. Ciò non toglie che, al tempo stesso, le città di provincia sono e resteranno sempre il cuore del basket.
Come vede il futuro del basket italiano?
Io lo vedo positivamente, perché c’è la volontà da parte di tutte le sue componenti (tifosi, sponsor, società ed atleti) di collaborare insieme per far sì che il basket non solo continui ad essere il secondo sport italiano, ma, contemporaneamente, che la nostra pallacanestro torni a riprendersi una dimensione internazionale di prima fascia.
E il futuro della Nazionale? È alle viste una nuova generazione in grado di uguagliare quella che ha portato l’Italia nell’NBA?
La risposta passa attraverso il lavoro che il movimento saprà fare sui settori giovanili, fondamentale per costruire il futuro. E voglio chiarire che quando parlo di settori giovanili non mi riferisco solo ai giovani giocatori, ma anche alle nuove generazioni di allenatori ed istruttori, che vanno formate e preparate a loro volta per poter dare il miglior contributo alla crescita del basket nel suo complesso.
Citiamo, senza nulla voler togliere agli altri (a partire da Riccardo Visconti…), due nomi: Stefano Tonut, che l’Umana Reyer ha saputo portare a Venezia da Trieste dopo averlo seguito attentamente, e Federico Miaschi, il primo 2000 a esordire in Serie A, che la società orogranata ha fatto crescere nelle sue giovanili dopo averlo pescato in Liguria. Il futuro, della Reyer e dell’Italia, può passare anche da qui?
Deve passare da qui. Per continuare ad essere protagonisti, in Italia e all’estero, la valorizzazione dei nostri talenti è l’aspetto primario da tenere in considerazione quando si costruisce un progetto.
Torniamo al presente e scopriamo le carte: qual è l’obiettivo reale per quest’anno dell’Umana Reyer?
Sin dalla presentazione della prima squadra abbiamo detto che il nostro obiettivo era quello di una stagione da protagonisti, senza porci limiti o asticelle ma, insieme, senza fare promesse, se non quella di un impegno costante per onorare la maglia che indossiamo. Continuiamo quindi su questa strada.
Stone, Batista, il recupero di Tonut: tre innesti che indubbiamente possono far fare alla squadra un salto di qualità: fino a dove?
Sono tre giocatori importanti, che avranno sicuramente un ruolo altrettanto importante nel prosieguo della stagione. Ma non dimentichiamo mai che, prima di tutto, al di là dei singoli, vengono la squadra e il gruppo. È questa la filosofia e il credo su cui abbiamo sempre improntato le basi del nostro lavoro e sarà sempre così.
C’è anche l’Europa… La Basketball Champions League è un progetto cresciuto giorno dopo giorno, fino alle Final Four: come la vede, a Tenerife?
La Champions League è stato un cammino che non esito a definire entusiasmante. Onestamente, non eravamo partiti con l’obiettivo delle Final Four, ma semplicemente volevamo affrontare questa Coppa con grande umiltà, mettendo comunque in campo la massima determinazione. Aver centrato, passo dopo passo, le Final Four è stato dunque un qualcosa di fantastico, che rimarrà sicuramente nella storia di questa gloriosa società.
Qual è stata la partita di quest’anno in cui ha cominciato a credere veramente che la squadra sarebbe stata in grado di portare avanti il doppio impegno, tra campionato e Coppa, in maniera così egregia?
Penso che il momento decisivo di questa stagione sia stato il terzo quarto dell’incontro d’andata con Pistoia. Eravamo sotto di 15 punti in casa, con tutta l’inerzia negativa figlia di alcune sconfitte maturate sia in campionato che in Champions. In quei frangenti, abbiamo reagito da grande squadra e da grande gruppo: ecco perché mi sento di dire che è da lì che è iniziato il percorso di crescita che ci ha portato fino a dove ci troviamo oggi.
Riesce a svolgere il suo ruolo con eleganza e professionalità, senza mai alzare la voce, in perfetto “stile Reyer”. Al tempo stesso, riesce a tenere ben separata la vita pubblica da quella privata: ma chi è Federico Casarin fuori dal campo?
Un “ragazzo” di cinquant’anni, la metà dei quali vissuti da marito felice di Valeria. Mia moglie mi ha dato due splendidi figli, Andrea e Davide, che ormai sono cresciuti e, a loro volta, sono diventati cestisti: è veramente bello aver visto che sono riuscito a trasmettere loro il mio amore per il basket e poter condividere oggi con loro una passione comune come quella per la palla a spicchi!
Com’è arrivato al basket?
Devo ringraziare il mio amico Matteo Vianello, già arbitro di Serie A ed ora dirigente dell’Umana Reyer: è stato lui, tanti anni fa, a farmi conoscere questo splendido sport e a spingermi ad entrare in questo mondo.
Il suo “maestro”?
Ho avuto la fortuna di conoscere e di vivere con tanti grandi personaggi dello sport. Ma, volendo indicare un nome su tutti, indico quello di Claudio Bardini: un educatore, un istruttore, un allenatore e un amico.
La prima partita vista?
La prima a cui ricordo di aver assistito dal vivo è stata Italia-Cecoslovacchia degli Europei 1979 al Taliercio.
La prima partita giocata?
Ricordo l’esordio in serie A1, all’Arsenale, nel derby Venezia-Mestre. Era la stagione 1982/83. Un’emozione unica.
La partita che ricordi di più?
Da giocatore sicuramente l’esordio, ma anche i 39 punti messi a segno con la maglia di Sassari nella partita contro la Breeze Milano di Portaluppi e co. nel campionato di A2 1991/92. Da dirigente, la vittoria della mia Umana Reyer contro la grande Siena pluriscudettata.
Infine, qual è il sogno di Federico Casarin?
Quello di poter continuare ad avere la fortuna di vivere quelle emozioni che solo lo sport, ed il basket in particolare, può regalarti.