La lucida analisi di Valerio Bianchini: “Il nostro è un basket da riformare, occorre ripartire dai giovani. E sul caso Hackett…”
Che il nostro basket non stia vivendo un momento felice è cosa ormai nota. Palazzetti non pienissimi, club che a livello internazionale non raccolgono un trofeo da anni (ad eccezione dell’Eurochallange vinta da Reggio lo scorso anno), una Nazionale lontana dai fasti vissuti a cavallo tra fine anni novanta ed inizio duemila. Prova a spiegarne i motivi Valerio Bianchini, una vita dedicata al basket e una carriera ricca di trofei come testimoniano i 3 scudetti (Cantù, Roma e Pesaro), 1 coppa Italia (Fortitudo Bologna), 2 coppe dei campioni (Cantù e Roma) e un’intercontinentale (Roma). Nelle dichiazioni rilasciate al quotidiano “La Repubblica”, il “Vate” trova nel professionismo una causa dell’involuzione della pallacanestro italiana: “La crisi economica ha messo in evidenza quanto è sbagliato e malato il concetto di professionismo così come viene esercitato in Italia. Lo sport professionistico per essere tale deve avere come obiettivo quello di produrre profitto, in Italia produce debiti. In passato questi debiti venivano coperti dagli sponsor, dietro ai quali c’erano grandi appassionati della pallacanestro, i vari Benetton, Scavolini, ancora prima Gabetti. Oggi questi grandi mecenati non ci sono più. Per anni e anni il basket si è cullato su questi soldi facili senza allargare mai il proprio sguardo. La legge sul professionismo è costata un aggravio di tasse spaventose che altre realtà europee non hanno. La mazzata finale è stata la globalizzazione, la possibilità di utilizzare giocatori di qualsiasi nazione perché tra passaporti regalati e giocatori equiparati la realtà è questa. Mentre il basket di una volta si permetteva di avere McAdoo, Wilkins, giocatori che venivano direttamente dall’All Star Game Nba, adesso prendiamo dei veri e propri turisti per caso, giocatori pronti per l’uso, da cedere magari dopo pochi mesi per guadagnarci. Così succede che ormai da anni i club hanno rinunciato ai vivai perché è molto più costoso affittare le palestre, pagare gli allenatori e tutto il contorno che serve per far crescere i ragazzi. E’ una situazione drammatica, una struttura demolita dalle legge 91 e dalla libera circolazione. Con quale risultato? Che l’ultima apparizione degna dell’Italia in ambito internazionale è stata ai Giochi di Atene 2004 con una nazionale formata da giocatori che erano cresciuti negli anni ’70 e ’80, quando le squadre le facevano i vivai. Chiuso questo capitolo si è chiuso anche quello della nazionale”.
Occorre quindi riformare il sistema, cosa non facile se i vertici non cambiano: “Gli uomini sono gli stessi da secoli e questo non favorisce l’affluenza di nuove idee. Credo ci vorrebbe una grande riforma, non tanto dello sport di vertice ma di quello dilettantistico. Nel basket il settore dei dilettanti non fa che scimmiottare il professionismo attraverso il sistema delle promozioni e delle retrocessioni. Questo significa che gli allenatori sono costretti a vincere e per vincere vanno sul sicuro negando spazio ai giovani. I nostri ragazzi arrivano a 18-19 anni che sono tra i migliori d’Europa, e i risultati delle nazionali di quella categoria lo testimoniano, poi lì si fermano perché non c’è modo di fargli continuare una formazione da giocatori professionisti. Non trovando spazio non c’è ricambio generazionale, un ricambio che tra l’altro non viene neanche cercato perché ci sono gli stranieri. Morale, non siamo più competitivi ormai da anni. Al massimo livello, quindi in serie A, le società hanno il diritto di utilizzare i giocatori che vogliono. Non possiamo aspettarci che siano i club di serie A a formare i ragazzi di 17-18 anni, loro usano per forza giocatori già finiti. Il problema del basket è sotto la serie A, quei campionati ormai sorpassati che non rispondono più alle esigenze di formazione dei nostri giovani. Purtroppo non c’è lo stimolo a cambiare questo sistema proprio perché ci sono gli stranieri. Una vera e propria invasione che ha effetti devastanti sulla qualità del gioco. Il basket italiano purtroppo è giocato malissimo a tutti i livelli e la colpa non è certo degli allenatori. Le grandi squadre, penso al Real Madrid, al Barcellona, mantengono la loro identità perché è attraverso l’esperienza che migliorano, è attraverso la coltivazione dei giocatori giovani che crescono, non certo cambiando tutto il roster ogni anno. Nel nostro paese, con il mercato aperto tutto l’anno, non c’è un minimo di stabilità tecnica e in più ormai c’è il disamore della gente. Al tifoso piace piace vedere il proprio giocatore che cresce negli anni. A Cantù lanciai in squadra Antonello Riva che aveva 17 anni, restò tantissimi anni diventando un grande campione, la gente era affezionata a lui. Passò a Milano, divenne il grande nemico, ma anche lì continuò a crescere. Allora il rapporto tra giocatore e club era rafforzato dall’affetto che la gente aveva verso i propri giocatori. Oggi non è più così. Ed è cambiata anche la figura dell’allenatore, una volta era il personaggio centrale perché interprete del progetto della società, era un general manager, sceglieva i giocatori. Oggi invece il mercato lo fanno il general manager, che si sono trasformati in scout, sempre pronti a cambiare giocatori”
Per Bianchini un biennio anche alla guida della Nazionale (1985-87) riguardo alla quale dice: “La Nazionale di oggi ha qualche buon giocatore in più, ma fin quando in Italia alla palla a due ci saranno sempre dieci stranieri per il ct azzurro sarà dura. C’è poi il problema degli italiani che giocano in Nba. Puntuale in inverno parte la delegazione per convincerli a vestire la maglia azzurra, atteggiamento che sicuramente non fa piacere a chi ha lavorato duro in estate per conquistare la qualificazione a qualche appuntamento importante. La nazionale non deve essere solo Gallinari, Belinelli e il contorno Nba, è una squadra che ha bisogno di unità, deve poter contare su tutti allo stesso modo. Il caso Hackett? Daniel è uno dei giocatori più importanti che abbiamo, il play della squadra campione d’Italia. Ha sbagliato, ha reagito male, ha commesso degli errori. Ma la nazionale non è un esercito, dovrebbe essere una grande famiglia. E in una famiglia un figlio che sbaglia non lo si condanna. Si redarguisce, poi si perdona. Invece Hackett è stato squalificato per sei mesi, anche se giocare in nazionale non è un obbliho ma una forma di volontariato. Una decisione incomprensibile, figlia di regole assurde. E’ solo un piccolo esempio di come sarebbe arrivato il momento di ragionare in termini diversi. Le novità sono i vari Fontecchio, Imbrò, Mussini, Della Valle, questi ventenni che Bologna e Reggio Emilia hanno il coraggio di far giocare. Sono bravissimi, gli angeli del fango del nostro basket. Bisogna ripartire da loro'”.
Infine un pronostico sul campionato: “Milano ha sempre gli stessi problemi, mi sembra una squadra troppo fragile dal punto di vista psicologico. Ha grandi campioni che però al dunque non mi sembrano ancora pronti per essere squadra. Dovrà fare un grande lavoro l’allenatore, supportato dalla società con un’esperienza che forse però la società non ha. Sassari è una realtà molto interessante perché ha un presidente che è un vulcano di idee. La squadra è buona, gioca un basket d’attacco, un tipo di gioco che piace molto al pubblico ma che non è garanzia di risultati perché la difesa è poco solida e non sempre il tiro da tre funziona. C’è bisogno probabilmente di qualche altro strumento ed è quello che sta cercando di fare Sacchetti, ma è un’abitudine mentale che non hanno e allora fanno fatica. In Italia il livello è talmente modesto che non hanno grossi problemi, quando giocano in Eurolega, contro squadre che hanno un’identità costruita negli anni, trovano enormi difficoltà”.