«Preparati a spellarti le mani, per l’ultima volta in campo: El Diablo»: la homepage del sito della Juvecaserta ha aperto da giorni così, prima del grande evento di ieri sera al Palamaggiò. Sì, stavolta Enzino Esposito ha detto davvero stop: lascia il basket. I 1.500 accorsi al torneo Irtet lo hanno visto, con la sua storica maglia numero 6 (ritirata già anni fa), entrare in quintetto in Caserta-Cremona e infilare subito una tripla, la sua specialità. Tutti scattano in piedi: è delirio. «È dal 2009 che ho deciso di fare l’allenatore: nell’ultima stagione sono sceso di duovo in campo con Imola, pur essendone il tecnico, a causa di un momento di difficoltà di un club a cui sono legatissimo, ma ho smesso da tempo. A 45 anni me la sono cavata benone. Enzino è sempre Enzino, nella mia carriera ho fatto cose che gli altri per metterle insieme non ci riuscirebbero neppure in due vite».
Oggi Esposito fa l’aiuto allenatore di Lele Molin: è tornato a Caserta dopo quasi venti anni, magari ne potevano passare meno… «In Italia c’è sempre poca riconoscenza verso chi ha fatto qualcosa di importante, conta più chi conosci che chi sei stato. Comunque, pensiamo al presente e all’occasione che mi hanno dato gli attuali patron della Juve, Barbagallo e Iavazzi, oltre al g.m. Atripaldi. Non sono amareggiato, davvero, so come funziona il “gioco’».
Rispetto ai tempi in cui era in campo, molto è cambiato.«I giocatori sono migliorati tanto dal punto di vista fisico, ma tecnicamente sono peggiorati. Di talenti come me se ne vedono ancora pochi. E quei pochi non vengono aiutati nella crescita. Mi spiego: c’è bisogno di tempo per formare un ragazzo, si deve avere il coraggio di metterlo in campo senza avere ripercussioni. Invece, ormai in Italia i progetti, salvo rarissime eccezioni, non esistono più. Ti mettono pressione, devi vincere le partite, appena sbagli succede il finimondo. E si riparte daccapo, cambiando tutto senza capire che si sta facendo un danno. Ci sarà un motivo perché nell’età più importante per la crescita in America hanno l’Ncaa che dura quattro anni. Un tempo giusto per capire e valutare la crescita. Basta guardare le cifre per accorgersi che quelli che poi vengono scelti nell’Nba o vengono a giocare in Europa, hanno i numeri migliori nell’ultima stagione».
Si può cambiare qualcosa?«Problema molto ampio, che coinvolge vari campi. Ma la sensazione è che nessuno voglia davvero cambiare: c’è sempre un motivo per cui si pensa a salvare i propri interessi invece di ragionare per il bene comune, ecco il motivo
di tante regole ‘strane’».
È stato con Rusconi il primo a giocare nella Nba, ma soprattutto il primo a segnare un canestro: anche qui sono passati quasi 20 anni da quei mesi con i Raptors…«In tutto eravamo venti europei… Era un sogno giocare nella Nba, l’ho realizzato. Non fu facile, ma col tempo mi hanno apprezzato fino ad avere un minutaggio importante contro i Knicks dove feci 18 punti, record poi battuto da Bargnani. Resta un mondo a parte, dove la fortuna è fondamentale. Bisogna sperare negli incastri giusti. Prendete Belinelli, che ha cambiato un bel po’ di squadre prima di trovare quella giusta, oppure Datome che a Detroit non ha trovato quello che si aspettava».
Perché ha deciso di fare l’allenatore?«Perché vorrei insegnare basket come hanno fatto con me prima Tanjevic e poi Marcelletti. Ginocchia per terra, e tanti fondamentali. Hai voglia di passare ore davanti al video: se non hai la gente che ti fa canestro e che si inventa la giocata di classe, è tutto inutile. Io ho vinto le classifiche dei marcatori dalla A alla vecchia B-1: un motivo ci sarà, no? Ecco, quello di anomalo che c’è oggi è che c’è tanta quantità in palestra e tanta qualità al video: dovrebbe essere il contrario… Intanto, do una mano alla mia Caserta: siamo una bella squadra, ve ne accorgerete».
Fonte: La Gazzetta dello Sport