Domani Dan Peterson, da Evanston (Illinois), compie 80 anni di cui 43 vissuti in Italia. Dal 1973 è un’icona del nostro basket e non solo. Tv, pubblicità, editoria, università, management: nel suo curriculum non manca nulla. Tra i canestri è un numero uno: da noi ha conquistato 10 titoli tra cui 5 scudetti (il primo con la Virtus Bologna poi il poker con l’Olimpia Milano) e la coppa Campioni che nel 1987 ha concluso la parte più importante della sua epopea di grande allenatore a Milano. Dan, intanto auguri. Oggi quanto c’è di italiano in lei e quanto è rimasto di americano? “In Italia ho imparato lingua e cultura, un universo nuovo che mi ha portato a diventare un turista a tempo pieno. L’esperienza in Cile, dove ho allenato due anni la nazionale, mi ha agevolato con l’idioma così ho potuto inserirmi velocemente. Degli Usa mi porto addosso la mentalità tipicamente americana, cioè concretezza e tempismo nell’agire e nel pensare”. Quali sono le persone che hanno avuto più influenza nella sua esperienza italiana? “Prima di tutti l’avv. Porelli, patròn della Virtus, che mi ha chiamato a Bologna nel giugno 73. Lui mi ha fatto diventare un professionista. Poi Adolfo Bogoncelli, gran capo dell’Olimpia. Devo molto anche ai Gabetti, Armani e Proli per la mia duplice esperienza a Milano. E in Cile il presidente della federbasket Rodriguez”. Quando arrivò a Bologna girava un gossip che fosse un agente Cia, ruolo che poi avrebbe interpretato 40 anni dopo in una fiction tv. Ci pensa ancora? “Mi fa sempre ridere quella storia. Tutto nacque dal fatto che lasciai il Cile una settimana prima del golpe anti Allende. Se fosse stato così oggi dovrei farmi pagare due anni di stipendi arretrati dal Governo Usa”.
Bianchini dice che lei è stato un innovatore nel basket italiano, all’epoca stretto tra i dogmi di Aza Nikolic e Giancarlo Primo. Conviene? “Anch’io sono stato influenzato dai grandi coach dei licei dell’Illinois e, nel sistema college, da John Wooden di Ucla e Ray Meyer di DePaul. Nella Nba mi affascinava Red Auerbach di Boston. Sono arrivato a Bologna portando un basket semplice, fatto di due schemi offensivi, difesa a uomo, contropiede. Così abbiamo vinto subito coppa Italia e, al terzo anno, lo scudetto”. Per lo scudetto si fece assegnare un bonus di 10mila dollari da Porelli. Se lo sentiva? “Lui metteva i premi partita, per me sbagliati e ancora oggi diseducativi. Dissi: “Mettiamo il premio risultato finale. Se vinciamo lo scudetto 10mila, finalisti 7.500. E così via per ognuno dei tre anni di contratto”. Porelli accettò perché non credeva che avrei vinto così presto”. Il giocatore più decisivo per la sua crescita di allenatore? “Sicuramente Tom McMillen a Bologna. Ci siamo studiati e aiutati a vicenda”. Milano è stato il salto di qualità. Come lo ha preparato? “Tutto per gradi. Il Cile è stato il ponte tra gli Usa e Bologna. La Virtus tra gli Usa e l’Olimpia”. Dei 10 titoli qual è quello a cui è più legato? “Il triplete con Milano nell’87, una squadra piena di campioni: D’Antoni, Meneghin, McAdoo. Vincemmo la coppa Campioni rimontando nelle qualificazioni il -31 contro l’Aris, prossimo avversario dell’EA7. Metto quell’impresa tra le prime 5 della mia carriera”.
E’ tornato in panchina a 75 anni. Le mancava? “Sì perché ho smesso troppo presto. A 51 anni avevo tanti impegni fuori dal basket e temevo che si pensasse che fossi troppo distratto. Poi non stavo bene: mi alzavo a fare pipì almeno 10 volte per notte. Certo che ci ho pensato a rientrare: Porelli mi voleva per il dopo Cosic. Avrei accettato solo per Milano e le nazionali di Cile e Italia. Infatti sono ritornato a Milano nel gennaio 2011, il presidente Proli mi ha dato una grande gioia”. Le piace il gioco di oggi? “No. Il pick and roll ha ucciso il fondamentale più bello, cioè palleggio-arresto-tiro. E il tiro da tre ha trasformato i tiratori: prima c’era il jump shoot ora c’è lo shoot jump, tutti tirano coi piedi per terra. E vorrei riportare il blocco alle regole anni 60: un metro distante dal difensore”. Qual è stato il suo campione assoluto e il suo avversario da incubo? “Bob McAdoo e Bob Morse”. Chi sono oggi i coach più bravi? “Popovich in Nba, Obradovic in Eurolega e Recalcati in serie A. In assoluto il migliore italiano è Messina”. E quelli coi quali ha sudato di più? “Gamba, Taurisano e Bianchini. Valerio, il mio grande rivale, era un genio perché trasformava qualunque evento da importante a grande”. Tornerebbe ad allenare ad 80 anni? “Sicuro, me la sentirei benissimo in una situazione giusta per me. Ma non vivo accanto al telefono aspettando la chiamata di un presidente”.