Vince Carter con l’iconica jersey dei Toronto Raptors (credits photo: Pinterest.com)
Nel mondo dello sport sono tante le storie di atleti che con la loro carriera hanno scritto la storia di club e franchigie. Viaggi non sempre lunghi ma la cui intensità ha permesso di imprimere sulla carta degli almanacchi il nome di giocatori fondamentali per l’affezione dei tifosi a una bandiera sportiva. Vi sono anche parabole di uomini e donne che hanno con la loro carriera definito il significato di amore per la propria disciplina in maniere spettacolari ed elettrizzanti. Nel mondo della pallacanestro esistono addirittura personalità capaci di far innamorare del proprio gioco qualunque fan del pianeta. Una in particolare lo ha fatto mostrando con le sue doti atletiche la vera passione per la palla a spicchi: Vince Carter. L’abbraccio con il basket risale agli anni del liceo, in quella Daytona Beach rinomata nel mondo per la storica gara riservata ai mostri a ruote coperte della NASCAR. C’è anche il football americano nel periodo high school, lasciato infine per entrare nel mondo che lo avrebbe consacrato quale icona globale.
A fare da giunzione tra l’adolescenza in Florida e l’approdo in NBA fu la scelta dell’Università del Nord Carolina tra le tante offerte ricevute per le sue doti atletiche. Approdando all’ateneo di Chappel Hill, impossibile per Carter sapere che il destino lo avrebbe legato al grande Michael Jordan non solo per la casacca collegiale indossata. Il suo salto nel mondo dei professionisti avvenne nel Draft del 1998, a pochi giorni dall’ultimo storico trionfo del 23 più amato a Chicago, concretizzatosi nella serie contro gli Utah Jazz. Se l’NBA stava dicendo addio per la seconda volta ad MJ, come sempre la Lega accolse in quei giorni alcuni dei grandi giocatori che abbiamo amato negli ultimi vent’anni. Per Carter la scelta arrivò al primo turno (5ª assoluta), preceduto da Olowakandi (primissima pic per i Clippers), Mike Bibby (storico playmaker per i Kings di Sacramento che ebbe il piacere di assaggiare il parquet per la prima volta vestendo i colori dei Vancouver Grizzlies), Raef LeFrenz (ragazzo dell’Iowa cresciuto collegialmente in Kansas) e dal collega in Carolina, Antawn Jamison. Un ulteriore intreccio del destino nel Draft che ci consegnò anche Dirk Nowitzki e Paul Pierce. I due Rookie furono al centro di uno scambio tra Toronto e Golden States proprio a seguito della serata di “debutto in società” dei più talentuosi sognatori della palla a spicchi.
Recap del primo turno del draft con prime parole a caldo dei protagonisti. Tra loro ovviamente anche Jamison e Carter (credits video: NBA.com YouTube Channel)
Toronto rappresentava, insieme a Vancouver, ancora la novità canadese per la Lega quando Carter arrivò in città. Franchige giovani inserite in un progetto di allargamento oltre il confine settentrionale. Un investimento deciso con David Stern (venuto a mancare il primo gennaio 2020 all’età di settantasette anni) quale Commissioner NBA e che nelle intenzioni doveva far parte di un programma di espansione verso nuovi mercati e allargamento del numero di piazze coperte dalla massima lega cestistica. Toronto, unica sopravvissuta di quell’espansione canadese, spiccò negli anni per la fusione tra tradizione statunitense e talenti emergenti pescati in giro per il globo. Ai fans italiani non suonerà nuovo il nome di Vincenzo Esposito, promessa casertana e attuale coach della Germani Brescia. Fu anche grazie alla stagione dell’italiano in NBA (la prima assoluta della squadra) a diffondere la notorietà di Toronto e della maglia del Raptor canadese nella nostra Penisola. La stagione ’98-’99 doveva essere un passaggio fondamentale di maturazione per la franchigia. In tal senso, l’atletismo di Carter fu l’ingrediente scelto dal management per costruire il salto di qualità. Già dall’anno precendete i Raptors avevano trovato grande talento gestendo i propri slot nella roulette delle nuove leve e dando il benvenuto a un altro giovane promettente: Tracy McGrady. Carter e T-Mac trovarono una grande alchimia, frutto di un forte legame maturato fuori dal campo e di capacità atletiche e di gioco molto simili. I frutti della ponderata strategia Raptors si vide nella media-lunga distanza. Dalle ultime posizioni a Est, base dei primi anni di vita della franchigia, Toronto raggiunse nell’arco di due anni la post-season.
McGrady e Carter (credits photo: Twitter Account di Timeless Sport)
Il 2000 segnò il picco di massimo splendore dei Toronto Raptors a guida McGrady-Carter. Nel corso di una stagione che valse il secondo posto in regular season sulla costa orientale, tornò a disputarsi dopo quasi tre anni l’All Star Weekend. Nel sabato dei contest tra le stelle della Lega, organizzata all’interno dell’Oracle Arena, il duo scrisse una pagina fondamentale per la diffusione della disciplina e la coltivazione del mito NBA. Entrambi parteciparono a una delle gare di schiacciate più combattute e spettacolari della storia di questo sport. Con una serie di evoluzioni, Carter diede vita a quella che rimarrà sempre la punta di diamante della sua carriera. A coronare quell’iconica serata non fu il trofeo vinto per aver sbaragliato l’agguerrita concorrenza. Fu l’elettricità fatta provare ai tifosi sugli spalti e in collegamento da ogni angolo del globo a rendere unico quel contest, entrato di diritto nella storia dello sport con la stessa prepotenza ed energia giovanile con la quale Carter aggredì il canestro.
Video recap dell’elettrizzante vittoria dello Slam Dunk Contest nell’All Star Saturday del 2000 (credits video: YouTube Channel ESPN.com)
È proprio la narrazione di quella sera a consegnare l’immagine più adatta a rappresentare l’intera carriera di Carter. Dopo quella magica serata nella Baia di San Francisco, Vinsanity (uno dei tanti soprannomi guadagnatisi con la maglia di Toronto) conobbe per la più lungeva avventura Playoff vissuta fino a quel momento in Ontario e conclusasi contro i 76ers di un altro giovane talentuoso: Allen Iverson. Nelle stagioni successive all’Air Canada Center si tornò a sognare soltanto la post-season, raggiunta quando nella metropoli iniziò una nuova era dopo il saluto definitivo di Carter. La seconda avventura della carriera si concretizzò nel New Jersey di Jason Kidd. La sconfitta alle Finals 2002, aveva naturalemente infranto i sogni della franchigia alle porte della Grande Mela che scelse l’icona di Toronto per tentare un nuovo assalto alla vittoria finale. Successo che non arrivò mai. Ad East Rutherford Carter affrontò, come nel 2000 con McGrady, il saluto di un grande compagno di squadra rimanendo l’unica icona di una fan base sportiva. La strada dell’otto volte All Star tornò a incrociare quella di Kidd qualche anno dopo. Terminata anche la solida avventura Nets, per Carter fu la volta di Orlando, dove ritoccò (come aveva fatto in New Jersey con alcune delle voci statische di sua eccellenza) il massimo traguardo raggiunto nella Lega con le Finali di Conference del 2010. La controversa parentesi in Arizona con i Suns precede il ricongiungimento con Kidd nella Dallas post titolo. Una stabilità finalmente ritrovata che gli permise di costruire e consolidare l’immagine di veterano della federazione. Una transizione verso una seconda vita sportiva, contraddistinta da una diversa declinazione delle sue innate doti atletiche.
Più di 20 anni di colori ed espressioni iconiche del numero 15/25 di Dayton Beach
Il Carter di Memphis, Sacramento e Atlanta non è ovviamente il giovane per il quale impazzì l’intero mondo della pallacanestro. Un uomo maturo. Capace ancora di pungere e che impressiona per la dedizione e l’amore per la pallacanestro che lo hanno reso proprio ad Atlanta l’unico giocatore capace di scendere in campo in 4 decadi differenti. Le doti atletiche continuano a impressionare seppur non con lo stesso impatto della medaglia d’oro con il Dream Team di Sydney 2000, capace di saltare letteralmente i 218 centimetri di Frédérick Weis (allora centro della nazionale francese).
Reperto video della poderosa schiacciata di Carter alle Olimpiadi del 2000
Possiamo tranquillamente affermare che Vince Carter rappresenti uno dei più grandi interpreti dello spettacolo che David Stern ha provato con i suoi vent’anni di carriera da Commisioner a coltivare. Spettacolo slegato dal numero di trofei contenuti in bacheca e in grado di colpire con incredibile immediatezza lo spettatore. L’impatto di una schiacciata capace di far scoccare il colpo di fulmine con lo sport più emozionante al mondo: questo è il più grande regalo dedicato da Vince Carter alla pallacanestro.