Una notte che passerà nella storia. Se è vero che questo sport è metafora di vita, è pur vero che ogni aspetto di essa riemerge in campo. Questa volta siamo sul parquet del Staples Center di Los Angeles. Nessuna prestazione da record farà ricordare questa serata. I Nets sono pronti alla partita contro i Lakers. In squadra c’è anche il “neo-acquisto” Jason Collins. Centro di 35anni, sei diverse squadra di NBA alle spalle, pivot con spiccate doti difensive e una buona dose di aggressività. Lontano dalla palla a spicchi da aprile scorso. Nei suoi undici minuti, Collins mette a referto zero punti, due rimbalzi e cinque falli. Eppure resterà nella storia: è “una prima volta”, e resterà per sempre impressa nelle menti.
Una notte che passerà nella storia, alla luce del tramonto. Prima che Collins torni a calcare il parquet, si ricorda la lunga carriera di 13 stagioni e 713 partite da dignitoso “uomo di sistema”. Prima di tornare ad indossare il numero 46 pur avendo scelto il 98, che non era pronto per questa partita, il nuovo ingaggio dei Nets ha continuato ad allenarsi tutti i giorni, pur non avendo contratto. Pur non credendo di averne ancora. Attualmente sono dieci giorni di arruolamento sotto le redini di coach Jason Kidd, ma Brooklyn ha bisogno di un lungo per sistemare un reparto in difficoltà dopo l’infortunio di Brook Lopez e quindi potrebbe decidere di prolungare il contratto per tutta la stagione. Ora bisogna fare un salto indietro al 29 aprile 2013 per capire perché il match Lakers-Nets, con Collins in squadra, sarà registrato negli “annali del Basket”. E forse non solo.
La lunga e struggente lettera comparsa su “Sports Illustrated”, scritta di pugno dal cestista americano, sfatò infatti un tabù: “Sono un centro dell’NBA di 34 anni. Sono nero. E sono gay. Non intendevo essere il primo atleta dichiaratamente gay di un torneo americano professionistico a squadre. Dal momento che lo sono, sono felice di parlarne. Non volevo essere il bambino che alza la mano in classe dicendo: ‘Sono diverso’. Se fosse per me, qualcun altro avrebbe già potuto farlo. Nessuno l’ha fatto, ed è per questo che sto alzando la mano.” Da allora sono passati dieci mesi, Collins è anche un personaggio pubblico, simbolo dei diritti degli omosessuali e spesso ospite di Barack e Michelle Obama alla Casa Bianca. Il suo ritorno in campo è perciò una svolta storica per lo sport americano. È la prima volta che un atleta, tra i maggiori sport di squadra americani, dichiara apertamente la propria omosessualità. È l’ennesima barriera che viene abbattuta nel mondo dello sport, ancora una volta con una squadra di Brooklyn come protagonista. Quasi settant’anni fa, infatti, fu Jacki Robinson dei Brooklyn Dodgers il primo giocatore nero nella storia del baseball moderno a giocare nella MLB, mettendo fine a decenni di discriminazione razziale nello sport americano. Ma i tempi erano ancora prematuri, era preferibile tacere.
Dopo il suo “annuncio”, Collins ha ricevuto il sostegno di tanti colleghi e di tante personalità tra cui l’ex giocatore di basket Magic Johnson, il presidente dei Washington Wizards Ernie Grunfeld, il presidente Obama e sua moglie, ed anche la stella dei Lakers Kobe Bryant.
Con l’atto di “coraggio” di Jason Collins, direttamente dalla lega di pallacanestro più famosa del mondo (ma come anche di altri atleti in altri sport), si spera in un “effetto domino” che sia capace di dare forza ai tanti giocatori (e non) spaventati dalle difficoltà di esprimere i propri orientamenti sessuali.
Un pioniere, un simbolo per l’uguaglianza sociale, per i diritti di gay e lesbiche nel mondo dello sport e non solo. La notte di Collins allo Staples Center è storica e va celebrata come tale: cioè il momento in cui è stata abbattuta una barriera, un tabù.
In attesa che la “notizia” dell’omosessualità di un atleta smetta di essere una notizia.
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