Il 28 febbraio è andato in onda il documentario, intitolato “Muse” sulla carriera di Kobe Bryant.
La pellicola tratterà tutta la sua carriera in NBA partendo dalla Lower Merion High School fino alla lega dei professionisti dando anche uno sguardo alla vita fuori dal parquet: l’accusa di stupro, gli infortuni, le riabilitazioni, le sue ispirazioni e la sua attività futura dopo il ritiro dalla palacanestro. In occasione dell’evento del lancio del documentario, USA Today ha potuto intervistarlo per parlare anche di una nuova carriera dopo il basket che il giallo viola racconta di aver cominicato a pensare già da qualche
anno: “Ero Milano ed ebbi il piacere di cenare con Giorgio Armani. Ero incuriosito dalle dinamiche che lo hanno portato ad aprire la sua azienda e come ha affrontato il processo di crescita. Lui mi ha rivelato che ha aperto Armani quando aveva 40 anni e in quel momento mi sono sentito impaurito perchè una carriera nel mondo della pallacanestro finisce a 35, 36 anni e sei fortunato. Ma poi, cosa sarei andato a fare? Da quel momento, quindi, ho iniziato a pensare ciò che avrei veramente potuto fare nella post-carroera ed ho pensato allo storytelling. Magari, pensavo, mi piacerebbe anche essere un copy-writer, o forse un art director. O tante altre cose di questo tipo. Mi ci sono voluti 15 anni per capire fino in fondo cosa volessi fare. Per prima cosa cercavo di capire quale potesse essere il mercato migliore dove poter entrare, come avrei potuto fare miliardi di dollari? Ma poi pensai ‘ ca**o, hai iniziato a giocare a pallacanestro perchè l’amavi e ti piaceva, non perchè volevi essere milionario, ma solo perchè amavi giocarci. Quindi, Kobe, cosa ti piace fare che non sia il basket? ‘Mi risposi, mi piace raccontare storie che possano ispirare la gente, lo storytelling muove le montagne’. Quindi ecco, non mi interessa di che tipo di storytelling si tratti, che sia sportivo o altro, o a chi sia rivolto, lo storytelling è una forza trainate del mondo e per me rappresenta la ragione per la quale sono qui oggi a presentare il mio documentario. Nella mia vita ho guardato tanti documentari dei giocatori del passato e grazie ad essi ho imparato e capito le loro filosofie di gioco e di pensiero facendomi diventare ciò che sono. Io voglio avere lo stesso effetto nei giovani di oggi che guarderanno il mio documentario.”
L’intervista continua parlando dei suoi compagni, dei Lakers e delle sfide con gli altri giocatori della lega; secondo lui non ci sono più giocatori con il suo stesso tipo di dna perchè “ai miei tempi era completamente normale essere competitivo e voler essere migliore di tutti gli altri. Io, quando ero giovane, cercavo di essere migliore di Tim Tomas e lui voleva esserlo con me. Quella era una cosa normale, mentre ora si prende tutto con meno aggressività e con più passività pensando dell’altro ‘ no, non sto cercando di essere migliore di te , tu sei veramente forte.’ Magic e Isiah Thomas erano ottimi amici ma ognuno di loro voleva ciò che l’altro aveva. Anche l’All Star Game va giocato in un altro modo, vai indietro al 1988 o al 1989. Quei ragazzi erano in competizione. Cercavano di vincere. E io ho sempre provato a fare lo stesso come quando ho affrontato Vince Carter e Dwyane Wade negli All-Star Game del passato, loro sapevano che avrei giocato seriamente. Speriamo che i prossimi possano tornare ai livelli competitivi del passato”.
A Kobe è stata fatta anche qualche domanda su Dwight Howard con cui ha giocato insieme nella stagione 2012-2013 a cui disse che sarebbe potuto essere il leader dei Lakers in 3 o 4 anni “non si tratta di 3 o 4 anni. Per me si trattava di assicurare ai Lakers la persona giusta per mantenere questa franchigia ad alti livelli. Ho provato a insegnare a Dwight tutto ciò e a mostrargli cosa comporterebbe o come farlo. Ma la realtà è che la percezione di una squadra che vince il campionato è quella di un gruppo unito, dove tutti sono amici, e credo che questa fosse la sua percezione. Ma quando ha visto che la realtà è diversa non è più sembrato a suo agio ed è molto difficile uscirne e superare questo tipo di sfida”. Ha inoltre raccontato anche le sue ispirazioni e di come è diventato un giocatore aggressivo per essere un leader, “C’è un ottimo capitolo nel documentario che si chiama “Black Hat” e che parla di equilibrio. A volte posso essere cattivo con gli altri, a volte posso essere simpatico. Essere un leader è l’arte di provare a trovare un equilibrio tra le due cose, trovare il giusto temperamento per ognuno dei giocatori della tua squadra e capire di cosa han bisogno in quel preciso momento”, e della sua passione per lo storytelling. Da questa intervista si può quindi capire che il documentario sul giocatore tratterà numerose questioni e sarà molto interessante per tutti quelli che sono sostenitori di Kobe Bryant.
Photo: Ellery Chen