Kobe Bryant, la Leggenda del Black Mamba
Rieti, 1984, torneo di minibasket della città. A questa competizione partecipano ragazzini che hanno dagli otto ai nove anni. In mezzo a loro c’è un bambino, si chiama Kobe, e ha solo sei anni.
Per farlo divertire un po’, il suo coach, Claudio Di Fazi, decide di schierarlo in campo nonostante la sua giovane età.
Gioacchino Fusacchia, coach della squadra avversaria, acconsenti dicendo: “Ma sì fatelo giocare, tanto così piccolo cosa potrà mai fare?”.
Palla a due, Kobe intercetta la sfera e segna. Altra rimessa, stessa storia, e così via, per quattro o cinque azioni.
I bambini che stavano giocando contro di lui, presi dallo sconforto, iniziarono a piangere.
Fusacchia chiamò subito time-out per andare dall’amico Di Fazi e dirgli: “O togli subito Kobe dal campo o faccio un macello e ritiro la squadra perché è pure fuori età!”
«Ok – rispose rassegnato Claudio – ma ora chi glielo spiega a Kobe?»
Coach Di Fazi fece uscire il piccolo Kobe dal campo.
Il bambino era talmente triste che iniziò a piangere a dirotto, per quel motivo si inventarono un immaginario premio di miglior giocatore del torneo.
Quel giorno nacque ufficialmente una leggenda, il suo nome: KOBE BEAN BRYANT!
Sono passati quasi sette mesi da quel stramaledetto 26 gennaio 2020 dove Kobe Bryant, insieme a sua figlia “Gigi” Gianna Maria Onore e ad altre sette persone, perse la vita in un tragico incidente in elicottero nelle colline di Calabasas in California. Da quel momento la Leggenda di Kobe Bryant si è fatta ancora più grande di quello che già era.
Il mamba nero è senza dubbio uno dei serpenti più letali esistenti sulla faccia della terra. La sua muscolatura e la sua velocità lo rendono una delle creature più pericolose di sempre. Un suo morso può uccidere un uomo adulto in soli sette secondi. Ed e per questo motivo che il paragone con questo animale calza a pennello con la figura di Bryant, veloce e famelico, il suo strapotere fisico gli ha permesso tantissime volte di sconfiggere avversari molto più grandi e grossi di lui.
Nel 2003 Bryant decise di adottare questo soprannome, se lo autoattribuì dopo avere visto Kill Bill: Volume 2, pellicola in cui vengono descritte le sue caratteristiche. Kobe si documentò su questo serpente sostenendo che il suo modo di giocare e di agire sia simile a quello di adottato dall’animale menzionato nel film di Quentin Tarantino.
Black Mamba, un soprannome diventato leggenda e poi brand, che ha accompagnato Bryant per tutta la sua vita.
Questa è la sua storia:
La gioventù in Italia, il Draft del 1996 e l’esordio in NBA
Kobe Bryant nasce a Philadelphia, nello Stato della Pennsylvania il 23 agosto 1978. Bryant iniziò a giocare a basket sin dai 3 anni e visse in Italia dai 6 fino ai 13 anni di età dove il padre, Joe Bryant, giocava, prima Rieti poi Reggio Calabria, Pistoia per poi finire a Reggio Emilia.
Oltre a trascorrervi l’adolescenza, nel nostro Paese il Bryant figlio inizia ad innamorarsi della pallacanestro ed ha imparare i fondamentali di questo sport costruendo quel forte legame che lo accompagnerà per tutta la vita. Dalla passione per il calcio e per il Milan, alla padronanza della lingua italiana utilizzata più volte nei contesti più disparati. Tra gli altri, memorabili alcuni scambi in italiano con Sasha Vujačić.
Una volta tornato negli Stati Uniti d’America frequenta la Lower Marion High School dove inizia ad affermarsi come cestista, vincendo un titolo statale ed infrangendo negli anni successivi il record di punti a livello liceale che fino a quel momento era appartenuto ad un giocatore di fama mondiale come Wilt Chamberlain. Nell’anno da junior le cifre (31.1 punti e 10.4 rimbalzi) ed il miglior record della scuola iniziato ad attirare su Kobe le attenzioni dei grandi atenei della NCAA. Dopo il 4-20 del primo anno, nel triennio successivo gli Aces vincono 77 gare a fronte di sole 13 sconfitte.
Nel 1996 arriva la svolta: da appena diciassettenne si dichiara eleggibile per il draft NBA senza passare da nessun college, nonostante ci fossero state offerte da università molto importanti come Kentucky e Duke. Bryant venne scelto come 13º scelta assoluta dai Charlotte Hornets passando però subito ai Los Angeles Lakers. Lo scambio con Divac, che a quel momento era senza posto in squadra, avvenne dopo un provino pre draft nel quale Bryant impressionó tutti, soprattutto Jerry West, deus ex machina della franchigia gialloviola.
E quella maglia Bryant non la mollerà mai, rimanendo a Los Angeles per 20 anni!
In quella squadra c’era un gigante di 216 cm per 147 kg che rispondeva al nome di Shaquille O’Neal, uno che nella vita di Kobe c’è sempre stato nel bene e nel male e che ha firmato assieme a lui le grandi imprese dei Lakers. Shaq è sempre stato una sorta di fratello maggiore per Kobe, e lo ha sempre difeso anche quando, nei primi anni di carriera, i suoi compagni lo criticavano molto per il suo modo di giocare, ma di questo ne parleremo più avanti perché non è sempre stato rose e fiori il loro rapporto.
Nonostante questo, al suo primissimo anno in NBA, vinse il titolo All Rookie Second Team diventando di fatto il più giovane nella storia ad esserci riuscito.
I primi titoli, gli anni bui e la rivincita
Con l’arrivo di Phil Jackson nel 1999, già sei volte campione NBA con i Chicago Bulls di Michael Jordan, Dennis Rodman e Scottie Pippen, Kobe ebbe finalmente l’opportunità di mostrare chi era veramente. E pensare che in un primo momento Jackson considerò l’opzione dello scambio di Kobe con Grant Hill! Ma si sa, nulla accade per caso, e quell’incontro fece la fortuna di entrambi: i Lakers vinsero a distanza di 12 anni dal 1988 il titolo NBA nel 2000 e Bryant divenne il più giovane giocatore di sempre ad entrare nell’All Defensive Team.
I gialloviola si ripeterono per i due anni successivi, vincendo il titolo anche nel 2001 e nel 2002: three-peat con Shaquille O’Neal sempre MVP delle Finals e Kobe sempre più cresciuto come protagonista nella NBA.
Non tutto però, dura per sempre: dopo 3 anni di dominio totale e le Finals perse nel 2004 contro i Detroit Pistons, Shaq e molti membri storici dei Lakers lasciarono la franchigia. Per Kobe frattanto nel 2003 arrivò la famosa accusa di stupro con un anno di udienze (tra il 6 agosto 2003 e terminate il 27 agosto 2004) e con Bryant che perse alcuni contratti pubblicitari – Nutella e Adidas – ma firmò per la Nike.
Si fecero sempre più insistenti le voci di un suo possibile addio ai Lakers, ma Kobe non mollò mai prendendo l’assoluta leadership della squadra gialloviola: non arrivarono i Titoli, ma il 22 gennaio 2006 firmò la seconda miglior prestazione di sempre in NBA con gli 81 punti segnati ai Toronto Raptors.
La svolta di una squadra congeniale a Kobe fu l’arrivo nel 2008 del lungo spagnolo Pau Gasol dai Memphis Grizzlies con la squadra losangelina che guadagnò un giocatore di assoluto tasso tecnico e che ha sempre avuto un rapporto speciale con Bryant. Un’alchimia speciale tanto che Bryant faceva chiamare Gasol “Zio” dalle sue figlie. Questo ha permesso a Kobe di vincere il premio di Mvp della stagione NBA 2007-2008 e ai Lakers di arrivare alle Finals nel 2008 perse contro gli storici rivali Boston Celtics, ma di vincere dopo ben 7 anni di digiuno un altro titolo, nel 2009 nelle Finals contro gli Orlando Magic con Kobe diventato MVP delle finali. La conferma dello strapotere gialloviola arriva anche l’anno successivo, nel 2010, nella rivincita coi Celtics, con il quinto titolo NBA della carriera di Kobe e il secondo premio di MVP delle Finali.
Nel corso della sua carriera in NBA, Bryant ha partecipato inoltre a ben 18 al All Star Game vincendo per 4 volte il titolo di MVP.
Il rapporto di odio e amore con Shaquille O’Neal
Senza alcun dubbio uno dei rapporti più controversi e chiacchierati degli ultimi 20 anni di NBA. Shaq e Kobe oltre che essere ricordati per la loro potenza assoluta sul parquet sono anche ricordati per i loro screzi fuori dal campo. Un rapporto nato nel 1996 quando il giovane Bryant approda a Los Angeles. Shaq vedeva Kobe come un fratellino da proteggere e tutelare anche quando sbagliava qualche tiro: ebbene sì, anche Kobe sbagliava.
In particolar modo nella gara 5 dei playoff 1996 contro Utah Jazz Bryant venne pesantemente criticato da Nick Van Exel per essere andato corto al tiro in almeno tre occasioni. Diversa fu la reazione del suo compagno di squadra Shaquille O’Neal che prese le sue difese sostenendo che lui “sia stato l’unico che ha avuto il coraggio di prendersi quei tiri”.
Tutto sembrava andare a gonfie vele, 3 titoli vinti e grandissime prestazioni in campo dei due. Ma si sa, nulla è per sempre e nella stagione 2003/2004 arriva la goccia che fa traboccare il vaso. La cornice furono le Finals perse contro i Detroit Pistons. O’Neal accusò Bryant, già al centro di un polverone scatenato dalle accuse di stupro, di non aver dato il proprio contributo durante la serie. Il rapporto divenne talmente teso tra i due da allontanare definitivamente Shaq dal progetto Lakers che la stagione successiva andò ai Miami Heat.
Durante il memorial allo Staples Center, Shaq ha voluto ricordare un episodio che lo legherà per sempre alla figura di Kobe:
“In verità io e Kobe abbiamo sempre avuto un grande rispetto reciproco. Il giorno in cui Kobe ha guadagnato il mio rispetto, i compagni di squadra mi avevano detto: “Kobe non passa mai la palla…” Allora sono andato da Kobe e gli ho detto: “Ehi Kobe, guarda che non c’è ‘I’ nella parola ‘TEAM’…” (‘I’ inteso come lettera ma anche come “io” in inglese) E lui mi rispose: ‘Lo so, ma c’è una “M” e una “E” in quella parola, motherfucker (stronzo)!’ (RISATE DELLO STAPLES) Quindi son tornato a parlare agli altri e ho detto: ‘Cerchiamo di prendere i rimbalzi perché credo che non la passerà mai’”
I rapporti nel corso degli anni si sono poi appianati, ed è vero, non sono più tornati grandi amici, ma il rispetto e l’ammirazione tra le due superstar NBA non è mai venuto meno.
Dalla 8 alla 24
Un cambiamento fondamentale nella vita di Bryant arriva nella stagione 2006/2007 quando decise di cambiare il proprio numero scegliendo il 24 al posto dell’8. Kobe commento così la scelta ai microfoni di ESPN:
“Il 24 rappresenta la crescita. Gli attributi fisici non erano più quelli di una volta, ma il livello di maturità era molto più alto. Il matrimonio, i figli: le cose avevano iniziato ad avere una prospettiva molto più ampia, essendo anche diventato uno dei più vecchi in squadra invece di uno dei più giovani. Le cose evolvono. Non che uno sia meglio dell’altro, o che ci sia un modo migliore di approcciare le cose. Semplicemente, si cresce”.
E quel 24 rimarrà indelebile per sempre nel cuore di ognuno di noi.
La Nazionale USA
Con la sua nazionale statunitense Bryant può vantare, nonostante il rifiuto alle convocazioni nel 2000 e nel 2004 (questa per i famosi problemi giudiziari), la vittoria di ben due titoli olimpici a Pechino 2008 e Londra 2012, e di un FIBA Americas Championship nel 2007.
Nel 2016 si intravede per lui la possibilità di concludere la propria carriera con un terzo olimpico, tuttavia declina l’invito.
Con la nazionale disputò complessivamente 37 incontri, di cui 16 alle Olimpiadi e 10 ai FIBA Americas Championship, mettendo a referto in totale 504 punti (con una media di 13,6 punti a partita).
Il ritiro. “Mamba OUT!”
Il 29 novembre 2015 sul The Player’s Tribune Kobe annunciò il proprio ritiro dalla pallacanestro giocata con una lettera che, tra le altre cose, venne convertita in un cartone animato e che vinse il Premio Oscar 2018 come miglior cortometraggio d’animazione: Dear Basketball.
Nella sua ultima gara giocata, il 13 Aprile 2016, contro gli Utah Jazz Kobe segnò 60 punti (il più anziano di sempre), record assoluto per quella stagione. Una specie di filmone hollywoodiano, visto la vicinanza degli Studios. La serata dell’addio, suggellata da una prova incredibile. E arringa la folla dello Staples Center:
“Sono sempre stato un tifoso Lakers. Vi amo tutti dal profondo del mio cuore”. Si tocca il petto, ringrazia la moglie e le figlie per i sacrifici fatti in questi anni. Si emoziona, è la prima volta. “Difficile credere che fosse l’ultima volta. Yes, Mamba out“. Passa e chiude.
Il 18 dicembre 2017 i Lakers hanno ritirato sia la maglia numero 8 che la 24.
Sicuramente la vita di Kobe Bryant è di ispirazione per chiunque voglia iniziare a giocare a basket e non solo, i momenti bui, quelli di luce più splendente, gli infortuni, le cadute e i guai giudiziari non hanno mai scalfito la sua armatura.
Quella armatura nera che gli ha permesso di andare avanti contro tutto e tutti come un lupo solitario nella foresta, quell’armatura nera che lo ha più volte reso simile a un supereroe, quella armatura nera che ha attutito i colpi che la vita gli ha inferto, quell’armatura nera che lo ha reso per sempre BLACK MAMBA.