«La fine è parte del viaggio». Una frase impiegata dalla Walt Disney Picture per chiudere un arco narrativo importante di uno dei suoi universi cinematografici di maggior successo. Una tag-line che condensa elementi con i quali spesso veniamo a contatto. Elementi tanto semplici quanto malinconici. Per quanto sia difficile da affrontare, la fine ci permette di guardare indietro e riflettere sull’intero tragitto. Ripensare ai momenti magici ed a quelli più duri. Ai successi e alle sconfitte. Il finale permette di catalizzare la vastità dell’intero viaggio e grazie all’enfasi della malinconia ci permette di elaborare ed andare oltre, essendo fieri di ogni singolo momento.
Il decennio cestistico che tra poche ore saluteremo per sempre ha regalato emozioni che dentro ogni fan della palla a spicchi rimarranno impressi come ricordi. Tanto quanto acrobazie in back-door, canestri che battono sul tempo l’inesorabile sirena di fine partita, sistemi di gioco dominanti e spettacolari, troviamo la categoria di momenti che chiamiamo “addii”. Frammenti unici che in questo decennio ci hanno permesso di alzarci in piedi e tributare un lungo applauso a giocatori e ai loro viaggi che abbiamo potuto ammirare. Tra 2010 e 2019 tanti sono stati gli atleti che hanno deciso di appendere le scarpe al chiodo. Leggendo i nomi di giocatori ritirati in ogni stagione si scorre un elenco corposo di nomi che suscitano in maniera diversa la nostra curiosità. Si deve fare i conti con una dicotomia comune alla scoperta dei più svariati campi artistici. Impossibile ignorare l’importanza dell’addio di alcune All Stars di valore assoluto. Dall’altro lato nomi meno noti risultano significativi per una delle tante storie della Lega più emozionante al mondo.
Il definitivo saluto di Kobe Bryant rappresenta senza ombra di dubbio il più epocale degli addii di questa decade. Dopo vent’anni dal debutto con la nobile casacca giallo-viola, nel 2016 il cinque volte campione del mondo ha detto basta. Non è semplice ovviamente lasciare la propria passione, specialmente se costellata come nel caso del numero 24 di successi stellari. Non potrebbe essere altrimenti con i campionati vinti assieme a uno dei più grandi allenatori della storia, Phil Jackson, e giocando in coppia con altri nomi iconici, come Shaquille O’Neil e Pau Gasol. Senza contare i numerosi premi individuali da MVP o miglior marcatore, le presenze all’All Star Game e i record scritti. Una leggenda che ha lasciato traccia anche sulla storia olimpica e su quel Dream Team che tremare il mondo ha fatto. Il commiato del Black Mamba merita senza dubbi un posto d’onore come quello di Jordan, Johnson, Bird, Abdul-Jabbar, Chamberlain. Nomi che hanno segnato non soltanto la propria generazione ma anche quelle successive. Allo stesso tempo però, altri grandi nomi, condividono con Bryan in questo decennio l’incontestabile importanza del loro saluto.
Impossibile non guardare con malinconia al Texas e alla voragine lasciata da tre grandi alfieri vestiti di nero e argento. Duncan, Ginobili e Parker hanno fatto assieme la storia di una franchigia. Un capitolo immenso che ha visto la luce e il massimo splendore sotto la regia di un altro grande coach: Greg Popovich. Grazie alla conduzione del burbero tecnico con la Serbia nel sangue, i Big-3 di Fort Alamo hanno potuto brillare, contribuendo all’evoluzione del movimento cestistico di appartenenza. Guardando a Parker e Ginobili non si può ignorare l’importanza per il basket francese e argentino. Un ruolo che nel caso del playmaker nato a Bruges continua quale dirigente sportivo e presidente dell’ASVEL Villeurbanne. Si scalda invece il cuore dei tifosi della Virtus Bologna pensando a Manu Ginobili, capace di vincere ovunque. Tim Duncan, invece, condivide con Bryan non solo l’anno di ritiro ma anche diversi successi in nazionale. Grazie alla sua tecnica e ai suoi movimenti, possiamo considerarlo anche un “innovatore” del suo ruolo dentro l’area. Definizione che lo accomuna ad un altro grande professionista diventato cittadino texano d’adozione: Dirk Nowitzki.
Arrivato in Nord America nel 1998 dalla cittadina bavarese Würzburg, Nowitzki divenne ben presto idolo nelle strade di Dallas. Con il suo movimento in rotazione ha non soltanto fatto impazzire i tifosi ma segnato da solo per vent’anni la storia dei Mavericks. Un solo titolo per il lungo tedesco che vanta però un sapore speciale. In sinergia con un esperto play come Jason Kidd, Dirk sconfisse la corazzata Miami dei Big-3, ritardando ulteriormente il bacio tra LeBron James ed il primo agognato anello. Impresa storica che mostra come non valga soltanto l’ammontare di titoli per raggiungere la gloria eterna nella pallacanestro.
Un titolo soltanto per altri due che hanno salutato il circus in questo decennio. Nel 2007 Kevin Garnett scelse di compiere un’importante transizione per raggiungere il dolce sapore della vittoria alle Finals. Da Minneapolis si spostò a Boston, diventando compagno di squadra del giocatore più iconico della franchigia bianco-verde nel nuovo millennio: Paul Pierce. Con differenti risultati, entrambi provarono, prima dell’estate 2007, a trascinare il più in là possibile Celtics e Timberwolves. Fu però solo con il matrimonio nel New England, al quale si aggiunse un cecchino della Lega noto col nome di Ray Allen, a portare i due lunghi al definitivo coronamento. Nella stagione che rinverdì la storica rivalità con i Lakers, emerse anche un giovane playmaker, destinato a girare da lì in avanti il continente vestendo tante casacche differenti: Rajon Rondo. Cosa accomuna Garnett e Pierce oltre al 2008? L’aver scelto di “tornare in patria” per chiudere il proprio ciclo. Per KG, dopo aver giocato nella Grande Mela proprio con Pierce, troppo forte era l’ululato dei tifosi che nella Twin-City non hanno dimenticato il numero 21. La stagione 2015/2016 fu per Garnett l’occasione di passare il testimone alla nuova generazione. Pierce invece tornò solo per un giorno ad essere un tesserato Celtics, dopo aver scritto altre pagine nella Costa Ovest con i Clippers. Contratto di 24 ore per potersi ritirare quale giocatore di Boston. Una scelta d’amore fatta anche da un alfiere dei Chicago Bulls, Luol Deng. L’amore per la celebre canotta rossa era troppo forte per dire semplicemente addio alla palla a spicchi. Come Pierce firma di breve termine per entrare anche in tal modo nella storia di una città.
Del terzetto bostoniano, Ray Allen fu il cecchino dalla linea da tre, elemento essenziale per qualunque squadra ambisca al titolo. Caratteristica che lo porterà anche a Miami per assistere quale quarta voce il gruppo passato ufficialmente alla storia come Big-3: James-Bosh-Wade. Una stagione ricordata in Florida come la seconda era di massimo splendore. Due Finals vinte (2012 e 2013) che si aggiunsero allo storico titolo del 2006 di Wade e Shaq. Attraverso gli Heat passano tante storie di giocatori ritirati in questo decennio. Addii sempre sofferti ma sviluppatisi in modi diversi tra loro. Allen per esempio scelse di comunicare al mondo il suo abbandono al basket professionistico dopo aver lottato per tornare sul parquet per ben due anni dopo aver lasciato Miami. A portare Bosh al saluto definitivo nel 2017 furono serie complicanze fisiche. Il riscontro durante visite mediche di coaguli di sangue nei polmoni, arrestarono drasticamente la carriera del lungo texano nel febbraio del 2016. Da quello spavento passò quasi un anno prima della definitiva scelta di passare al nuovo capitolo della sua vita. Storia diametralmente opposta per Dwyane Wade. Tornato nella sua Miami dopo annate a Chicago e Cleveland, il fautore delle due epoche gloriose della franchigia annunciò con importante anticipo la scelta di chiudere a fine stagione. Un tour di addio simile a quello di Kobe che porta la guardia ad iconici scambi di casacche con giocatori avversari. Forse il modo più dolce per chiudere con i 16 anni di carriera. Un viaggio conclusivo per elaborare il lutto e affrontare la malinconia.
D-Wade è l’unico ad aver vissuto la vittoria delle Finals sia nel 2006 sia nel biennio LeBron. Il primo anello lo condivise con il più forte centro di tutti i tempi: Shaquille O’Neil. Scelta la Florida per ripartire dopo la stagione di successi agrodolce assieme a Bryant, Shaq mostrò di poter contribuire al successo di una franchigia, zittendo molte delle voci sulla sua condotta generatesi in California. Fu la ciliegina sulla torta composta dai tre titoli in giallo-viola, l’oro olimpico ad Atlanta ’96 e una sfilza lunghissima di record e riconoscimenti personali. Dopo i 4 anni nella Magic City, O’Neil portò i suoi servigi in altre piazze della Lega. Phoenix, Cleveland ed infine Boston. Nel 2011 l’ultima partita per l’atleta più dominante sotto canestro nella storia di questo sport. Da quel momento Shaq ha sposato a pieno la carriera da opinionista, seguendo le orme di altri ex come Reggie Miller. L’esuberanza che lo ha sempre contraddistinto ha rinnovato il panorama delle trasmissioni di contorno. Dalla rubrica Shaqtin’ a Fool, per raccontare il lato ironico dell’NBA, fino al trash-talking con l’eterno rivale Charles Barkley, una vera e propria seconda carriera da showman.
La lista dei ritiri ci consentirebbe di spendere ancora tante parole ricordando la storia di tanti campioni. Playmaker di esperienza come Steve Nash e Jason Kidd hanno lasciato un enorme bagaglio di ricordi ovunque abbiano diretto le fasi di gioco. Nessun anello per il canadese, idolatrato da tifosi ed addetti ai lavori specialmente nella sua permanenza in Arizona. Il trasferimento ad LA per tentare l’assalto al Larry O’Brien Trophy nell’ambizioso ma fallimentare progetto giallo-viola, ha dato il via all’ultimo stint nella massima serie. L’iride arrivò per Kidd con il magico 2011 di Dallas. Le strade dei due playmaker si è intrecciata tra la città texana e Phoenix dove entrambi hanno regalato speranze e magie alla fan base. Due All-Star che avrebbero probabilmente meritato più titoli ma che ugualmente possono vantare numerosi riconoscimenti individuali. Proverà a vincere ancora da allenatore Jason Kidd, che dal 2013 vanta già due esperienze come capo-allenatore (Brooklyn e Milwaukee) oltre all’incarico di assistente nella Los Angeles di re LeBron.
Iverson, Billups, Ming, Wallace, Marbury, McGrady, Hill. Tanta tradizione porterà con se questo decennio. In ordine cronologico Josè Calderon e Zach Randolph sono gli ultimi due ad aver annunciato il ritiro. La guardia spagnola ha iniziato una collaborazione da consulente per la NBPA (l’associazione giocatori della Lega). Ha atteso il periodo natalizio Z-Bo per rendere ufficiale la chiusura della sua carriera costruita di gioie a Memphis e Denver.
Queste sono le ultime lacrime fatte versare ai tifosi ascoltando l’immortale melodia che conduce lo spettatore al finale di Space Jam, agrodolce rappresentazione dell’amore di professionisti e tifosi per lo spettacolo più emozionante del mondo. Fly like an Eagle è la musica migliore per affrontare la nostalgia del nostro passato cestistico.