Ettore Messina, Mr. Wolf dell’Italbasket: “Rio 2016? La qualificazione non la vedo così complicata”
L’Italbasket, dopo il mezzo flop di EuroBasket 2015, punta tutto sull’esperienza e sul blasone di coach Ettore Messina per conquistare un posticino alle prossime Olimpiadi di Rio 2016. Non sarà per niente facile ma per l’attuale vice allenatore dei San Antonio Spurs, intervistato da La Stampa, la missione non sembra rappresentare un particolare problema: «Io come mister Wolf di Pulp Fiction? Piano, lui risolveva situazioni molto più complicate, in fondo io devo solo qualificarmi per le Olimpiadi. E sarò anche incosciente, ma non la vedo così complicata»
Due mesi di contratto, dentro o fuori. Dubbi nell’accettare il part time?
«Zero. Forse sarà l’ultima possibilità di partecipare ai Giochi, non potevo farmela sfuggire. Tanto che se anche mia moglie o Popovich – l’head coach di San Antonio – si fossero opposti avrei fatto comunque di testa mia»
Dice che non sarà così complicato qualificarsi ai Giochi: da dove arriva la sua sicurezza?
«La squadra si porta dietro l’ottimo lavoro fatto fino a qui, si tratta di perfezionare certi strumenti per essere più efficaci. Non si inventa niente, un allenatore non cambia le persone né le situazioni: io dovrò presentare loro i problemi che il gioco propone e dare delle soluzioni. Sarò una specie di traduttore. Poi, in quest’epoca di comunicazione social sfrenata, se dovessi fallire mi arriverà addosso un sacco di cacca. Ma alla mia età penso di poter sopportare»
Non lavora in Italia da 10 anni: che situazione pensa di trovare?
«Un sistema che cerca stabilità dopo liti, cambi di sistema, i guai di Siena, le cadute di Treviso, Bologna e Roma. Un movimento in cerca di una pace sociale necessaria per recuperare posizioni».
Spagna, Russia e ora Stati Uniti. Il basket ha una cifra comune o è di proprietà dei Paesi che lo giocano?
«Il basket ha due regole fisse: accettare il proprio ruolo dentro una squadra e vincere il maggior numero di duelli personali. È la chiave per lo sport di squadra».
Allena da oltre 30 anni, quando ha capito di aver fatto il salto di qualità?
«È stato decisivo un passo indietro, diventare il vice di Popovich. Da questa posizione ho rivalutato ogni esperienza passata».
Cos’ha Popovich di speciale?
«E il miglior allenatore del mondo e non solo per il basket. Ha una capacità empatica unica che mette in pratica con chiunque. Ha deciso che il basket non è la sua vita, ma che è una parte fondamentale della sua vita».
Per lei non è così?
«Ci sto provando. Per anni ho vissuto vittorie e sconfitte ogni volta come un esame. L’Nba in questo aiuta, in una stagione ci sono 82 incontri e si gioca ogni due-tre giorni: non c’è neanche il tempo per macerarsi»
Si sente ancora italiano?
«Il legame con le mie radici resta sempre. Quando sei fuori vedi da lontano quanto vanno male le cose e ti arrabbi, ma io non cambio passaporto».
Di tutte le città in cui ha lavorato, qual è la più italiana?
«Mosca. C’è la stessa fatalistica rassegnazione nei confronti dei potenti e dei loro privilegi, ma anche identico gusto per l’arte e per lo stare insieme».
A proposito di russi: sorpreso dallo scandalo doping?
«No. Quando stavo a Mosca scoppiò il caso del biathlon, quindi nulla di nuovo. Nemmeno nello sport, ma qui c’è il salto in avanti, è un affare di Stato».
Mano sul fuoco per l’Nba?
«Per quello che ho visto a Los Angeles e qui a San Antonio sì. Ci possono essere casi isolati, ma nessun piano. Diverso invece se parliamo di episodi legati a marijuana e cocaina»
Nba modello virtuoso o pericoloso?
«Virtuoso per due motivi. Nessuna lega del mondo ha un commissioner indipendente come l’Nba, prima Stern ora Silver. Nessuna decisione in base ad alleanze, per questo Stern stava sulle balle a tutti».
Il secondo motivo?
«L’arbitro fa parte dell’evento. Mai sentito il giorno dopo un giocatore o un coach prendersela con lui anche se ha sbagliato».
Bryant e Duncan al tramonto: cercasi volto da copertina?
«È già pronto: Stephen Curry di Golden State. Fisico normale, 40 punti a partita, il figlio che tutti vorrebbero avere. E finita l’epoca del bad boy, la gente non vuole tensioni in campo. Ne ha già abbastanza fuori».