Gioacchino Fusacchia: “A Rieti abbiamo dato sfogo alla passione innata del piccolo Kobe”
È infatti risaputo che ‘Black Mamba’ avesse mosso i suoi primi passi nel mondo della pallacanestro proprio nel nostro paese, dove si era trasferito con tutta la sua famiglia per seguire de orme del padre Joe Bryant. ‘Jellybean’ (come veniva chiamato), dopo nove stagioni in NBA, aveva deciso di cambiare stile e ritmo di vita, trasferendosi a giocare nella provincia italiana.
Kobe Bryant aveva trascorso sette anni tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, dal 1984 al 1991. Nato nel 1978, a 6 anni il piccolo Kobe si era trovato catapultato nella realtà della provincia laziale, frequentando la scuola locale, imparando presto anche la lingua, e non perdendo mai l’occasione per giocare a pallacanestro.
Ecco come lo ricorda il suo primo allenatore.
“Beh, allenatore è una parola troppo grossa quando si parla di Minibasket,” – afferma un commosso Gioacchino Fusacchia – “Io e Claudio Di Fazi ci definiamo più che altro istruttori. Da parte nostra possiamo prenderci il merito di essere riusciti a dare sfogo alla sua passione innata, e di non fargli passare la voglia di giocare a pallacanestro. A quell’età dal punto di vista puramente sportivo non si può vedere ancora se un bimbo poi diventerà un grande giocatore. Dal punto di vista caratteriale, però, direi che l’abbiamo aiutato ad inserirsi nella comunità. Sapete, a inizio degli anni ’80 in una cittadina di 50.000 abitanti come Rieti non era comune vedere stranieri, persone di colore… Ma neanche cinesi o giapponesi, non era come oggi! Per questo il piccolo Kobe all’inizio era timido, si nascondeva sempre dietro alla mamma o al papà. Poi piano piano ha iniziato a integrarsi e a forgiare la personalità che poi hanno conosciuto tutti”.
Cosa pensò la prima volta che vide il piccolo Kobe con la palla in mano?
“Devo dire la verità? Pensai che era proprio un bambino rompiscatole! In una cittadina come Rieti, che non ha mai avuto ad esempio una squadra di calcio importante, ma che è sempre vissuta di pallacanestro, avere in squadra un ex NBA come Joe Bryant era come per Napoli avere Maradona. Per questo, al figlio di Joe tutto era permesso! Lui entrava in campo durante gli allenamenti anche della prima squadra, durante i time-out delle partite… Quando vedeva l’occasione, entrava in campo col suo pallone e tirava a canestro, e nessuno aveva il coraggio di dirgli niente!”
Notò subito che quel ragazzino aveva delle qualità speciali?
“Dirlo adesso sarebbe facile. No, a quell’età è difficile… Era un bambino normalissimo, anzi, forse un po’ meno dotato fisicamente rispetto ad altri. A livello tecnico sì, perché sin da molto piccolo aveva assimilato nel suo bagaglio i movimenti di suo papà. Joe Bryant era una leggenda. Pensate che per 3/4 volte con noi aveva segnato più di 60 punti, e in quella epoca non c’era il tiro da tre! Quindi al giorno d’oggi sarebbero almeno 80/90 punti… Joe non passava la palla mai a nessuno, faceva tutto lui: era un anarchico della pallacanestro: tale padre, tale figlio!”
Era ben integrato in squadra e nella comunità locale?
“Kobe si è integrato moltissimo. Dopo il primo impatto iniziale, nel quale veniva quasi additato per essere ‘quello diverso’, la risposta di una comunità che vive di basket nei confronti della stella americana della squadra locale e della sua famiglia è stata eccezionale“.
Quanto crede abbia influito in Bryant l’essersi approcciato da bambino col tipo di basket che viene insegnato da noi? Quanto il nostro modo di intendere la pallacanestro abbia reso unico il suo modo giocare?
“Moltissimo. E non lo dico solo io… L’aveva detto anche lui stesso in più di un’intervista. Effettivamente, se vedete, negli Stati Uniti non esiste il minibasket; i bambini giocano al playground. Non è come da noi, dove fin da subito si insegnano tattica e fondamentali; là è tutto fisico e istinto. Kobe è arrivato in Italia nell’84 all’età di 6 anni, e ci è rimasto fino al ’91: ha imparato la nostra mentalità di vivere il basket. Ma in generale lui era innamorato dell’Italia e di tutto quello che facevano i suoi coetanei, tra cui giocare a calcio con gli amici, trovarsi al campetto, uscire assieme, andare al bar… Tutte cose che nel suo paese non sono comuni, e per questo ha sempre detto che gli mancava il nostro paese”.
Si notavano già questa voracità competitiva e ansia a migliorare che hanno caratterizzato la sua carriera?
“C’è una parola che lui ha sempre usato che è quella di ‘ossessione’. Lui aveva l’ossessione del lavoro e dell’allenamento. Fin da piccolo l’ha sempre avuta. Se non era al palazzetto, lo trovavi in qualche campetto sempre con il pallone in mano, sempre a tirare a canestro… Non si stancava mai! Una cosa incredibile a quell’età, mai visto un ragazzetto capace di allenarsi 6/7 ore di fila senza sosta”.
C’è qualche aneddoto di quell’epoca che ci può raccontare?
“Certo, riguarda il primo torneo disputato da Kobe. Era un torneo di minibasket organizzato dalla nostra società con circa 500 bambini nati nel 1975 e ’76. Arrivò Kobe con suo papà… e Joe ci disse di fare giocare anche suo figlio: ovviamente non potemmo dirgli di no. Pensammo che non ci sarebbero stati problemi, visto che era più piccolo, ma iniziata la prima partita, Kobe iniziò a segnare un canestro dopo l’altro, poi un recupero, un altro canestro… Giocava solo lui! Non passava la palla ai compagni e non la faceva vedere agli avversari. A un certo punto, anche per via dei genitori degli altri bimbi e per la nostra concezione del minibasket, che è uno sport di squadra, sostituimmo Kobe, che invece di accomodarsi in panchina, se ne andò in tribuna dai suoi genitori e iniziò a piangere. Ovviamente quella non era la nostra intenzione… e alla fine del torneo ci inventammo ii premio di ‘MVP’, che non esisteva per quella categoria. E fu così che Kobe vinse il primo titolo di MVP di una lunghissima serie “.
Cosa si prova ad aver allenato quello che poi è diventato uno dei più grandi di tutti i tempi della pallacanestro?
“Se l’avessi saputo 35 anni fa che sarebbe diventato quello che è diventato… L’avrei tesserato con noi! Avevamo molti ricordi: foto, magliette… Ma ora non abbiamo più nulla, non avremmo immaginato che sarebbe diventato una leggenda fino a questo punto. Ora tra di noi c’è tanta amarezza e tristezza, ma anche orgoglio e soddisfazione. Non vogliamo prenderci meriti non nostri, semplicemente ci consideriamo fortunati per averlo avuto nella nostra squadra e comunità”.
Come ha reagito alla terribile notizia della sua scomparsa e come ne valuta l’impatto globale?
“Guardate… Domenica sera ho ricevuto un messaggio da parte di mio figlio, che studia all’università. Non ci volevo credere. Ho acceso la TV e mi sono sentito come se fosse morto uno di casa, un membro della mia famiglia. Era qualcuno che sentivo realmente vicino, a cui volevo bene“.
Che consiglio dà ai giovani d’oggi che sognano di diventare stelle NBA come Kobe?
“Quello di vedere tanti filmati delle sue partite, di leggere quello che viene scritto in questi giorni, e di fare almeno un 10% di quello che faceva Kobe con la sua mentalità”.
Come definirebbe la ‘Mamba mentality’?
“È una mentalità innata, quella non si insegna. Kobe era caparbio, sfacciato, anche provocatore in campo. Poi lontano dal parquet era completamente un’altra persona”.
Una mentalità che ha permesso a Kobe Bryant di diventare una leggenda.
Ringraziamo ancora Gioacchino Fusacchia per la sua squisita disponibilità.