ESCLUSIVA – Piero Bucchi a 360°: “Chi ha soldi deve stare in Lega A. Brindisi una realtà importante, confermarsi è più difficile”
“Le difese vincono i campionati, gli attacchi vendono i biglietti”. Una filosofia di vita, oltrechè di pallacanestro. Spirito di sacrificio, d’abnegazione, di collaborazione nel creare un’identità di squadra, aldilà delle qualità individuali. Con questi concetti ben scolpiti in mente, Piero Bucchi ha condotto la sua carriera da allenatore, partendo dal basso per arrivare sempre più all’elite del basket italiano. Bologna, Rimini, Treviso, Roma, Milano e Brindisi le sue tappe. Non città qualsiasi, non squadre qualsiasi. C’è chi lo rimpiange, chi lo ha malamente scaricato e chi lo idolatra. Ma di una cosa bisogna star pur certi: il coach bolognese ha sempre dato il 100%, dal lavoro quotidiano in palestra al parquet di gioco, sempre sul pezzo per trasmettere ai propri giocatori la sua grande passione per questo sport.
Noi di BasketItaly lo abbiamo intervistato, per fare un punto a fine anno sul momento attuale dellla pallacanestro italiana, annaspata tra vari problemi di notevole importanza. In sottofondo, certamente da non dimenticare ma da rimarcare, il grande lavoro che sta svolgendo a Brindisi, giunto alla quarta stagione consecutiva in panchina, avendola raccolta in Lega Due dopo una dolorosa retrocessione dal piano superiore e riportandola prima nel basket che conta e poi in Europa, scrivendo pagine indelebili della storia dello sport locale.
Ripercorrendo il suo passato, qual è stato il momento in cui ha capito di volersi dedicare a tempo pieno alla pallacanestro, intraprendendo la professione di allenatore?
“Sono partito dalla mia casa madre, la Virtus Bologna, in cui ho disputato 8 stagioni tra giovanili e assistente di Ettore Messina. Lavoravo anche a scuola come insegnante di educazione fisica e avevo tutto ciò che potessi desiderare. Protezione, soddisfazione, lavoro. Dopo tanti anni però decisi di compiere un salto, di cogliere al volo un occasione proveniente da Rimini, staccandomi da casa anche per una sfida personale. Quello è stato il primo passo. Ho trascorso lì 7 anni, metà dei quali da head coach. Successivamente arrivò la chiamata dalla Benetton Treviso, e quello è stato il passo decisivo”.
Otto anni di Virtus Bologna, al fianco di un grandissimo coach come Ettore Messina. E’ stato il suo punto di riferimento? Effettivamente vi assomigliate sia come filosofia di gioco sia come carattere.
“Sì, effettivamente io e Messina abbiamo caratteri simili, a livello di ansia. di sistematicità e meticolosità. Lui è naturalmente un talento straordinario e lo ha dimostrato arrivando in NBA, io ho dovuto farmi le ossa da solo mettendoci del mio. E’ innegabile però che quegli anni mi abbiano lasciato un marchio indelebile, formandomi come uomo e professionista. Il credo, poi esportato altrove nelle varie esperienze, consiste nel trasmettere alla squadra un carattere battagliero e tenace, partendo dalla difesa come simbolo di sacrificio e lotta proprio perchè mai nessuno mi ha regalato niente nella vita. I successi bisogna conquistarseli, come nella vita così nel basket, con sacrificio e abnegazione”.
Da quando lei ha mosso i primi passi da coach, ad oggi sono cambiate molte cose. Come e quanto è mutato il ruolo di allenatore, soprattutto in Italia dove arrivano moltissimi rookie alle prime esperienze in Europa, rispetto ad anni fa in cui giocavano giocatori più esperti e navigati?
“Ripensando alla mia esperienza a Treviso, in cui paradossalmente ero io il giovane in un team in cui giocavano atleti come Pittis e Nicola, grandissimi conoscitori della pallancanestro, è cambiato davvero tanto. Adesso è diverso, si lavora più sui fondamentali, avendo del potenziale straordinario ma spesso grezzo poichè arrivano giocatori con un cultura cestistica alquanto povera. Devo dire però che è bello ugualmente, perchè il terreno è fertile e si può lavorare bene cogliendo piccole ma importanti soddisfazioni. Basti pensare negli ultimi anni a Simmons e Dyson, atleti che hanno spiccato il volo dopo l’esperienza qui a Brindisi, e nel caso di Cedric che hanno voluto addirittura fortemente ritornare nonostante richieste di grandi squadre”.
Il responsabile dell’Euroleague, Jordi Bertomeu, ritiene che il rilancio del basket italiano debba passare dalla ribalta delle grandi metropoli, in alcuni casi affondate nelle leghe minori. Avendo lavorato a Napoli, Milano e Roma, tra le più grandi e importanti città italiane, è d’accordo anche lei?
“Da un lato sono fortemente d’accordo, dall’altro bisogna dare importanza anche alle piccole città, in cui primeggia il basket e non il calcio, fattore assolutamente da non sottovalutare poichè estremamente difficile da trovare nelle metropoli. Penso che il basket italiano abbia bisogno delle grandi città per aver maggiore audience. Non ci sono più i grandi imprenditori di una volta e allora ci vuole la televisione per creare sponsorizzazioni e per coinvolgere un numero maggiore di telespettatori. Chi ha i soldi, in questo momento di crisi, deve poter disputare la Lega A. Verona, Fortitudo, Torino per esempio devono entrare dentro, facendo anche un campionato a 20 squadre per poi organizzarsi sugli eventuali gironi e calendari. Chi ha soldi garantisce gli stipendi e ciò è fondamentale anche per l’immagine che forniamo all’esterno. Basti pensare a quello che sta accadendo in Lega Due con tre-quattro squadre in grande difficoltà tra cui Napoli, situazione che mi rattrista pensando al mio trascorso”.
Qual’è la sua idea riguardo la collocazione degli atleti italiani in un contesto che si sta aprendo sempre più all’ingresso di giocatori stranieri?
“La mia idea di base è questa: peschiamo in Lega A le grandi squadre che hanno soldi, bloccando anche per un anno o più le retrocessioni. La giusta proposta per il tesseramento dei giocatori credo sia 6 stranieri e 6 italiani, un giusto compromesso senza distinzioni di passaporti cotonou o altro. In Lega Due credo vada bene la possibilità di avere qualche straniero ma nelle leghe minori ciò non deve assolutamente avvenire. Parallelamente non credo anche sia giusto garantire agli italiani un posto di lavoro solo perchè siano italiani. Il basket vive di spettacolo”.
Ora torniamo a Brindisi, una realtà sempre più importante. Il 2014 è stato un anno di ottime soddisfazioni, ora è alle porte un nuovo anno ricco di impegni. Quanto è importante avere una società solida alle spalle, che garantisce stabilità e sicurezza?
“Certamente è fondamentale perchè trasmettiamo credibilità. La società programma e crede nelle persone, confortata ovviamente dai risultati. Abbiamo cambiato molto rispetto all’anno passato ed in Italia siamo costretti a ciò, perchè chi gioca bene poi viene chiamato dagli altri che hanno più soldi. Tante squadre in un anno posso essere la sorpresa, ma il difficile è confermarsi e noi lo stiamo facendo pur con tutte le sfighe tra infortuni e cambi in corsa che ci sono occorsi in questa prima parte di stagione. Non sono scuse, bensì motivazioni. La società e la squadra hanno dimostrato a chiare lettere che sono presenti e questo è il segnale più importante”.
Un ultima domanda sul discorso nazionale. A settembre ci saranno gli Europei, e abbiamo un team davvero competitivo. Il girone sorteggiato non aiuta, ma non ci possiamo nascondere. Dove possiamo arrivare?
“Con i quattro giocatori NBA in forma e Daniel Hackett ce la possiamo davvero giocare con tutti. Il girone è molto duro però sono fiducioso avendo qualità e potenzialità assolute. Speriamo di avere tutti in forma”.
Ringraziamo l’ufficio stampa di Brindisi e coach Piero Bucchi per la disponibiltà.
Stefano Rossi Rinaldi