The Dark Side of the Ball. Quando premere il grilletto non uccide i tuoi demoni, la storia di Jarvis Crittenton
L’Nba è piena di storie di ragazzi difficili, con un infanzia di quelle che non si augurano a nessuno. Quando queste storie finiscono con il riscatto dei suddetti grazie ad una palla a spicchi arancioni questo è un gran bello spot per la Nba, oltre che una di quelle storie in grado di rinvigorire l’idea del sogno americano e dare linfa nuova a tutta quell’epoca che gli americani ci hanno creato attorno. Non sempre però i fatti seguono la traiettoria predefinita, anche perché staccarsi dall’ ambiente difficile e dai suoi demoni non viene automatico: non basta che uno ti dia un cappellino nella notte del Draft, anche se quel cappellino equivale a un biglietto per allontanarti fisicamente di svariati chilometri.
Il cappellino di Jarvis Cortez Crittenton in una serata del 2007 al Madison Square Garden, è quello che lo porta a Hollywood. Con la diciottesima chiamata lo chiamano i Lakers. E’ il draft dell’altro desaparecido (per motivi radicalmente diversi) Greg Oden, di Beli e di Al Horford. Quest’ultimo va ad Atlanta, la squadra che sognava il ragazzo di casa Crittenton ma il destino evidentemente aveva provato a salvarlo allontanandolo dalle sue ombre. Viene al mondo in una di quei quartieri dove non è un grande affare nascere afroamericano, metteteci poi il fatto che anche in questo caso, come in tante storie dello stesso triste filone, si è senza soldi e senza padre e capirete perché il carattere del bambino è già difficile a solo otto anni. La signora Sonya Dixon, che sarebbe la madre del pargolo, non trova altra soluzione che allontanarlo da quell’ humus di paure e rischi e lo affida all’ Adamsville Recreation Center di Atlanta. A questo punto della storia arriva il mecenate che riconosce il talento dell’artista e lo porta all’inevitabile successo. Nello stato della Georgia (quello della cola non quello di Zaza..) Wallace Prather Jr è per il basket quello che Peggy Guggenheim è per l’arte moderna. E’ lui che scova i vari Josh Smith e Dwight Howard. Come loro pure lui mette la canotta verde degli Atlanta Celtics ma non si limita solo a quello: studia con successo al liceo, legge la Bibbia e impara a non arrendersi mai di fronte a nessuno. Fare il liceo in quella prima parte degli anni zero e giocare a basket significa confrontarsi più o meno direttamente con quel mostro, anche mediaticamente, che già allora risponde al nome di LeBron Raymone James. LeBron parte dall’attacco ed è pronto a stoppare l’avversario a tutta velocità: siamo ancora agli albori della storia ma la chase down rientra già nel repertorio a pieno titolo. Jarvis lo evita con una finta e ne mette due che significano dieci, cento, mille. Poi qualcosa si rompe: è il cuore di Prather, la cosa più vicina ad un padre per il ragazzo, è il 2005. A Atlanta sono legati i migliori ricordi di Jarvis che è convinto che è lì il suo posto nel mondo: la scelta dell’università è automatica: Georgia Tech. Fa bene ma affiora ogni tanto un carattere focoso, niente di più, si pensa sia un irrequietezza che si passerà col tempo. Lo pensa anche Phil Jackson che lo porta, come detto in gialloviola. Dietro Bryant, quella versione del Mamba, spazio non ce n’è. In campo mette insieme sette punti di media ma i nervi gli saltano facile e finisce attratto dal dark side di LA. Rischia la rapina e prende una pistola per difendersi, almeno quella sarebbe l’idea iniziale. Conosce Dolla, pure lui approdato da Atlanta a Los Angeles. Dolla è un rapper underground e un modello, è nel mezzo del guado: ha fatto dei mixtape di successo sulla scena e ha iniziato a frequentare gente del giro grosso: da T-Pain a Akon. Finisce nella colonna sonora di Step–Up ma il disco vero non arriverà mai. Appassionato di armi finirà ucciso nel 2009 in circostanze mai chiarite proprio a Los Angeles, in un singolo uscito tre giorni prima ipotizzava la sua possibile morte. Non inomma il compagno di merende che tua madre vorrebbe. Quando Dolla muore i Lakers già l’hanno spedito a Memphis ma Jarvis ormai passa più tempo in California che in Tennessee e si circonda di loschi figuri di cui si sa spesso solo il nickname (che poi di gente chiamata Flaco ce ne sono a pacchi in ogni paese o quartiere latino..).
Se vi ricordavate questo nome prima di iniziare a leggere è però probabilmente per un episodio: il ragazzo di Atlanta aveva prestato dei soldi alla stella della squadra in cui aveva iniziato ad ingranare, tale Gilbert Arenas, che però non pareva troppo propenso a restituirli. La cronaca di quanto accade una sera nello spogliatoio dei Wizards è confusa: Butler aveva dato un annetto fa una versione, poi smentita in parte da “Agent Zero”. Alla duecentesima minaccia di Crittenton, che minaccia continuamente Arenas di fargli saltare definitivamente la malconcia rotula con una pallottola, il play apre il suo armadietto e gli mostra un vero arsenale: c’è pure un biglietto in mezzo: “pick one”. Crittenton non si spaventa: mette le mani nella tasca e caccia la sua arma, quella presa a Los Angeles per difendersi. Chi è presente evita che il duello da “Mezzogiorno di Fuoco” trascenda. L’Nba non può fare altro che far chiudere la stagione agonistica di entrambi anzitempo, è il 2010.
Non rivedremo più Crittenton su un campo Nba. Un anno dopo cerca di sparare a un malvivente che lo ha rapinato ma colpisce l’arteria femorale di Julian Jones, una giovane madre di quattro figli. Morirà sotto i ferri. Nel 2013 ha tanti di quei capi di accusa addosso da non avere più possibilità di uscire dal buio in cui si è cacciato. Ci prova nella maniera più sbagliata: inizia a trafficare droga. Lo beccano a spacciare marijuana e cocaina, non ci si può più esimere dal dargli una pena esemplare che arriva l’anno scorso: 23 anni di carcere e 17 di liberta vigilata, sarà un uomo libero a quasi settant’anni probabilmente troppo tardi per tutto. L’uomo che era riuscito a evitare la chase down di James non è riuscito a evitare che demoni ben più grandi potessero stopparlo.
Photo by brookenovak