Nick Young e l’importanza del (non) essere normali
Domenica tutti i giocatori dei Lakers avevano dei meravigliosi, quanto kitch, calzettoni con il numero 24 per omaggiare “voi sapete chi”. Faceva eccezione Nick Young che, pur di non conformarsi agli altri, ha scelto di mettere i calzettoni al contrario: in questo modo il numero impresso sulle calze era “42” , numero che comunque a Los Angeles un qualche significato ce l’avrebbe anche, dato che è il numero di James Worthy, ma non è questo il punto. Quando ho visto i Lakers battere contro ogni logica i marziani dello Stato dell’Oro ho capito perchè, nonostante la batteria numerosa di guardie in gialloviola, a libro paga ci sia ancora Nick Young: Nick Young è il giocatore meno decifrabile e più portato a darti delusioni nella Lega, però finisce che gli vuoi bene: rappresenta in pratica questi ultimi anni dei Lakers.
L’epsiodio delle calze non è stato un atto volontario di lesa maestà nei confronti di Bryant, che anche per “Swaggy P” losangelino doc è un mito, ma solo il risultato di un irrefrenabile necessità di essere diverso. C’è chi sente il bisogno di sentirsi il più forte, il più bravo e poi c’è chi, come Young, ha solo bisogno di ricordare (e ricordarsi) di quanto lui non c’entri niente con il resto del mondo.
Maestri di eccentricità non gli sono mai mancati dall’inizio della sua carriera Nba. Scelto con la sedici si ritrovò a Washinghton sotto l’ala protettiva di Gilbert Arenas, non esattamente Tim Duncan per attitude. Tra gli episodi che si narrano l’aneddoto più particolare risale alla stagione da rookie: Agent Zero chiede al ragazzo di comprargli un pò di cose in centro: Nick esegue e come mancia si compra, con la carta del compagno, un pc e un IPhone tra le altre cose. Arenas reagirà provando a spararlo con la sua pistola a pallini di gomma, conoscendo quello che farà Arenas qualche anno dopo a Young è andata di lusso.
Anche perchè in realtà Arenas è il modello di Young, che comincia anche a voltarsi subito dopo aver fatto partire il tiro da tre, senza neanche vedere se finirà nel camestro: a volte la cosa lo porterà anche a figure barbine ma ci fa capire quante cose il ragazzo avesse mutuato dal maestro.
Nel 2010 fugge da uno spogliatoio sull’orlo di una crisi di nervi e torna nella sua LA, in tempo per godersi la metamorfosi di una delle squadre più sfortunate della storia della lega: i Clippers. Qui iniziano a apparire chiari alcuni tratti del personaggio Young: Dopo una serie di playoff Paul rende noto al mondo il soprannome che accompagnerà Young: Swaggy P. In quella stessa conferenza Young sfoggia un look eccentrico per il resto del mondo ad eccezione del collega Westbrook. Sul campo è stato emersa la natura di Young, un giocatore in grado di lampi abbacinanti e di desolanti blackout in un arco di tempo brevissimo. Soprattutto a lasciare estrefatti, soprattutto nell’ Nba moderna, è il fatto che Young abbia toccato una media di assist in carriera pari a 1,1. Diciamo che l’avversario di Domenica, tale Draymond Green, sarebbe diverso.
Dopo l’anno a Phila torna a Los Angeles ma dalla parte gialloviola. I motivi che lo spingono, a parte i soliti motivi che potete immaginare, hanno due nomi e due cognomi: Kobe Bryant e Jordan Farmar. Farmar e Young si conoscono da anni: hanno vinto, e tanto, insieme all’ high school, e sono stati nemici-amici più di Rod e Toby negli anni dell’università per ovvie ragioni. Farmar era un Bruin, il nostro un Trojan e divideva il backcourt con il nostro Daniel Hackett, tra l’altro. Negli anni ad LA le cose sono andate bene ma non benissimo: Farmar ha continuato il suo giro del mondo e ora è tornato in Europa, con l’idolo Bryant, nonostante i buoni propositi, paiono mancare “affinità elettive”, per dirla con Goethe.
Young per molti rapprsenta il classico giocatore adatto a una squadra da tanking, e ci sarebbero anche argomenti a supportare la teoria. Forse è entrato definitivamente nella fase discendente della carriera. Quel “nobody can guard me one on one ” urlato più volte appare iperboico quanto il suo personaggio. Il gossip ci racconta che è legato ad un altro personaggio interessante come Iggy Azalea, una sorta di versione femminile bianca di Swaggy P: rapper fuori dagli schemi e portata a dividere pesantemente. Alla fine però la parte più interessante di Young-Swaggy P è un’altra: quel braccio destro perfettamente normale, senza neanche un tatuaggio: un oasi di ordinarietà nella stravaganza. Con quel braccio Young tira e, ogni volta che lo fa, ci ricorda che se lo ricorderemo, in fondo, sarà solo “for the buckets”
Photo by: Keith Allison