L’ “altro” documentario da Oscar sul basket: The Legend of Swee’Pea
Ieri sera la notte degli Oscar ha dato una statuetta anche a Kobe Bryant perchè nessuna Academy potrà mai resistere a una storia d’amore sincera e “Dear Basketball” è esattamente questo. E’ una lettera che sviscera venti anni di passione tra la leggenda dei Lakers e lo sport che gli ha dato tutto ( e a cui lui ha ridato indietro tantissimo).
Non tutte le storie d’amore però sono così lineari e a lieto fine. Qualche anno prima è uscito un documentario che parte dallo stesso presupposto: raccontare la storia di un ragazzo che ha passato i migliori anni della sua vita a giocare a basket, solo che in questo caso l’intorno ha inciso in maniera diametralmente opposta sul successo dell’atleta e, prima ancora dell’uomo. Il documentario parla di Lloyd “Swee’ Pea” Daniels e l’atmosfera è, giocoforza, lontana anni luce dalla leggerezza del docu-cartoon di Bryant.
Anche più di Bob Cousy (uno che ha vinto talmente tanti anelli che non gli basterebbero due mani per indossarli tutti) secondo la vulgata comune newyorchese il miglior giocatore uscito dalla Andrew Jackson High School è Lloyd Daniels. A onor del vero non è che il protagonista di questa scuola fosse sempre presente nei corridoi di detto liceo. Lui ha altre priorità: gioca anche a tarda notte, convinto che imparare a giocare al buio lo farà diventare un mammasantissima quando il canestro sarà ben illuminato. La mattina, dopo essere andato a dormire all’alba, non si sveglia praticamente mai e non ha nessun genitore pronto a strigliarlo con la cinghia.
Come tanti ragazzi di colore del Queens Lloyd ha una situazione familiare difficile: la madre è scappata quando lui aveva 4 anni mentre suo padre è un alcolizzato cronico che entra e esce dalla vita del ragazzo e parrebbe avere bisogno d una guida quanto e più del figlio. Resta la nonna che si mette il cuore in pace e gli permette di mollare tutto in terza liceo.
Le giornate di Lloyd sono un continuo peregrinare da un campetto all’altro. A New York funziona così: se vuoi farti un nome come giocatore di basket, per aspirare al ruolo di leggenda cittadina devi giocare dovunque. Impresa difficilotta giacchè i campetti già allora erano qualcosa come 700 campetti.
Alla fine Lloyd stupisce talmente tutti che la gente arriva appositamente al “suo” campo, quello dove aveva iniziato a giocare cinque anni prima solo per sfidarlo. Il campo si chiama “Il Buco” giacchè per raggiungerlo bisognava scendere dei gradini. Arrivano ragazzi di 17/18 anni per sfidare lui che di anni ne avrebbe 13. Inizia a fare tornei in giro e a Las Vegas lo vede Jerry Tarkanian, allenatore dell’università locale che riesce a spuntarla su un’altra decina di università pronti a offrirgli una borsa di studio pur di farlo giocare (intanto ha miracolosamente finito la scuola rimbalzando da un liceo all’altro).
Di solito questo è il punto in cui la storia svolta: il ragazzo si allontana dall’ambiente difficile e si dedica unicamente al suo talento diventando un campione. Di solito. Va a visitare il campus e si ferma a Las Vegas ma, al posto di girare per casinò, finisce in una crack house dove lo trova la polizia: è fatto e con la maglietta dell’Università addosso. I suoi demoni lo hanno inseguito fino in Nevada. E’il 1987.
Può solo tornare a New York dove, per due anni, si annulla con un contnuo mix di alcol e droga, più precisamente crack.
A corto di soldi fa una bravata: va a comprare la roba ma, al posto di dare agli spacciatori i due pezzi da cinque gli dà due banconote da un dollaro. I due iniziano a inseguirlo fino a casa di sua nonna: non appena esce gli piantano tre (o forse quattro) colpi di pistola. Fan dei western si ricorda di John Wayne che, in quelle situazioni, nei film consigliava di non chiudere mai gli occhi perchè una volta chusi forse non si riapriranno mai.
Due settimane dopo già è tornato a gioca e tira (e segna) unicamente da casa sua. Gioca nella lega di Michael Jordan contro Michael Jordan nonostante sia di fatto una persona col fisico distrutto dagli eccessi. Cambia un pò di squadre e gioca pure abbastanza e discretamente. In mezzo fa una annata mostruosa in Europa a Pesaro, nel documentario la parentesi in Italia non è troppo trattata ma fatevi un giro a Pesaro e troverete abbastanza persone che si ricordano di Lloyd Daniels e stavolta non sono (solo) spacciatori.
Ora vi aspetterete che la storia abbia una fine epica, una morte drammaticamente all’altezza di quanto raccontatovi finora. Qualcuno di voi forse si aspetterà addirittura un lieto fine: Lloyd “Swee’Pea” Daniels che, lontano dagli eccessi, dà da mangiare ai piccioni e aspetta i nipotini davanti scuola.
In realtà Lloyd è ancora nel mezzo della sua lotta per uscire dalla “malattia”, come la chiama lui, la compagna lo ha lasciato e, nonostante le cose siano migliorate, ogni tanto il suo carattere esuberante, corroborato da qualche ricaduta, lo rendono ancora instabile.
“The Legend of Swee’ Pea” non vincerà mai un Oscar probabilmente perchè non ha nulla di un film: è vita vera.