Il tallone d’Achille del nostro basket
Siamo a Milano, sono in corso le Final Eight 2013. Mike Green alza la palla cercando l’alley-oop per Polonara. È canestro. Il pubblico è tutto in piedi. Gli arbitri assegnano la tripla a Varese. Non è chiaro se in realtà quella traiettoria è stata sporcata da Achille, ma poco importa. Le certezze rimangono le stesse di allora: se il tocco c’è stato, parliamo di una delle più grandi giocate degli ultimi anni di pallacanestro italiana. All’epoca non avevamo ancora visto la schiacciata di Tomas Ress, oggi la definiremmo seconda solo a quella. Ad impressionare il Forum di Assago fu la facilità con la quale andò a staccare Polonara, mostrando un atletismo da pianeta superiore. A complimentarsi con lui c’era anche la parte milanese del pubblico, quella che qualche giorno prima aveva visto l’Olimpia fatta a pezzi dalla banda di Vitucci. Al termine del pomeriggio, Siena sollevò l’ennesima Coppa Italia, la quinta consecutiva. In pochi ricordano che il secondo argomento dei giorni successivi fu l’accostamento tra la giovane ala di Varese e l’NBA. In quel momento era il candidato numero uno a diventare il quinto italiano, davanti anche ad Alessandro Gentile, essendo il quarto posto già ipotecato da Gigi Datome. A posteriori può sembrare assurdo, vista la crescita del figlio di Nando, ma non dobbiamo stupirci troppo. Il capitano dell’Olimpia non aveva ancora dato l’impressione di poter dominare e le controindicazioni erano molte. Achille, invece, sembrava pronto, eppure alla fine non è esploso quell’anno. Mentre uno dei due è stato scelto, l’altro è nuovamente alla disperata ricerca di una rampa di lancio. Gentile è arrivato al draft perché il talento grezzo era tale da permetterglielo in autonomia. Polonara aveva bisogno di una “spintarella”. Peccato che quest’ultima non sia arrivata. Alessandro ce l’avrebbe fatta a prescindere dal contesto: lui è un predestinato, non è stato formato dal nostro campionato. Quando parliamo del nativo di Maddaloni, non possiamo usare la definizione di prodotto. Non è il diamante sfornato dalla Serie A creatrice di gioielli. Piuttosto ci troviamo nella condizione di dire che ha superato l’ostacolo di trovarsi in Italia. Gentile è l’eccezione, Polonara la normalità di chi finisce per essere schiacciato dal sistema. Il rischio è di trovarsi in futuro a parlare di Achille e rendersi conto che è stato sprecato il suo talento. Troppo semplice dare la colpa a Vitucci. Avrebbe dovuto concedergli più spazio durante quello che sembrava il suo anno. E se ci fosse stato un altro al suo posto? Ovviamente le cose non sarebbero cambiate. La gestione di Polonara la scorsa stagione è stata perfettamente in linea con quella di tutti gli italiani. Le coincidenze vogliono che l’altro dato vicino all’NBA in quel periodo, Pietro Aradori, abbia recentemente fatto le valige per la Turchia, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa. Come dargli torto quando consiglia di fare lo stesso a molti connazionali. Se la situazione è insostenibile per un big del suo calibro, figuriamoci per coloro che hanno meno esperienza. Alcuni non sono pronti, come potrebbero farci notare gli addetti ai lavori. È vero, nessuno pretende che i giovani partano subito titolari nella massima serie, giusto mandarli in categorie minori a farsi le ossa. Ecco che salta fuori il vero dramma: anche scendendo è pieno di stranieri. L’italiano accetta di spostarsi, speranzoso di avere spazio, e finisce per trovarsi nuovamente a combattere con un roster ripieno di americani. La conseguenza inevitabile è che non arriverà preparato a sufficienza quando sarà giunta l’ora di risalire. I nostri non hanno bisogno di favoritismi, non servono numeri imposti dall’altro, basterebbe metterli nella condizione di poter competere ad armi pari con chi arriva da fuori. Gli stranieri al momento sono indispensabili per ambire ai vertici oltre i confini, dobbiamo con onestà ammettere che una squadra di soli italiani in Eurolega farebbe poca strada. È necessario ricorrere a loro per una promozione? Cominciamo a chiederci questo. Le realtà sotto la Serie A sono chiuse, non c’è confronto con l’estero. A nessuno interessa se il livello della seconda lega italiana è inferiore a quello delle altre europee. L’assurdità del nostro basket sta nel non riuscire a tutelare gli italiani nemmeno in categorie che dovrebbero essere le loro. Qualche regola certamente male non farebbe, ma la prima cosa che deve cambiare è la mentalità di chi opera nei piani bassi della piramide. La soluzione dell’italiano obbligatorio in campo è uno spostare la polvere sotto al letto: nasconde il problema, ma non lo elimina. Nell’immediato garantirebbe a qualche azzurro minuti in più, in futuro diventerebbe un boomerang. Vivremmo tutti nella convinzione di aver risolto la questione, quando invece le radici rimarrebbero al loro posto. Abbiamo citato Achille Polonara ad inizio articolo proprio perché nessuno impersona il nostro basket meglio di lui. Nel suo caso potrebbe essergli stata negata la possibilità di mettersi in luce ed andare oltreoceano, ma ci sono tanti nell’ombra ai quali un’esperienza simile magari è costata la Serie A, o addirittura la carriera da professionista. Non conosciamo le loro storie, ma abbiamo la certezza che esistano. Il talento in Italia non manca, i risultati delle nazionali giovanili parlano chiaro. Se siete amanti della pallacanestro nostrana, non andate a vedere le rose delle ultime under 20. Ve lo sconsiglio, fa male scoprire che molti di quei giocatori oggi sono rilegati a ruoli di secondo piano. Prima ancora che Aradori denunciasse la situazione, qualcuno aveva già scelto di conseguenza. Non è un caso che Amedeo Della Valle abbia trovato un ruolo da protagonista. In fondo è stato formato cestisticamente da Ohio State. In America ha affrontato momenti non semplici, ma l’esperienza gli ha comunque consentito di evitare la scalata nel sistema italiano, cosa che sarebbe accaduta qualora fosse rimasto a Casale. Confrontando il suo percorso con quello di Polonara ci accorgiamo che ha avuto ragione chi è andato all’estero. Concludo confessandovi una cosa: ebbi la sensazione dal vivo che il passaggio di Mike Green fosse stato toccato. Peccato che non basti l’esito di un canestro a cambiare tutto il resto.