È stato veramente punito?
Mentre provi a riflettere sui più che prevedibili sviluppi del caso Hackett, viene da te il classico amico indigesto di calcio a chiedere delucidazioni. Essendo esterno, non abituato a certe dinamiche, finisce per porti l’inevitabile domanda banale: “Cosa c’entra il campionato?”. Con il suo quesito ti spiazza a tal punto da rimanere in silenzio con gli occhi persi nel vuoto. Deluso per la mancata risposta, se ne va con la coda tra le gambe, ignaro di averti fatto notare per la prima volta alcune assurdità. Il collegamento tra il campionato e la vicenda esiste: Hackett è un tesserato dell’Olimpia Milano, la Serie A è gestita dalla FIP, a sua volta rappresentata dalla nazionale maggiore. Come abbiamo appena visto, per arrivare a destinazione occorre fare un bel giro. Quella che sulla carta dovrebbe essere una punizione in realtà è un semplice ostracismo: la sentenza non avrà alcun impatto, se non quello di costringere il giocatore ad andare all’estero. La finalità della pena, che generalmente dovrebbe essere quella di rieducare, in questo caso viene meno. L’unica cosa ottenuta è la frattura definita tra le parti: molto probabilmente Daniel Hackett tornerà a vestire la maglia azzurra, anche se in questo momento non riesce facile immaginarlo, ma continuerà a portarsi dietro i segni della vicenda. La strana “scoperta” la si fa nel momento in cui ci si rende conto che una squalifica del genere è possibile solo per un italiano: nessuno straniero può essere deferito per la stessa ragione, questo è un dato di fatto. Esistono quindi regole che valgono solo per gli azzurri, ciò significa che la legge della pallacanestro non è uguale per tutti. Se i nostri devono sottostare a più comandamenti, per loro diventa semplice infrangerli ed essere puniti. Le probabilità di vedere un connazionale costretto ad uno stop forzato sono maggiori. Ha ancora senso parlare di quote e tutela? Abbiamo tutti quanti i cervelli in fumo ormai, nel vano intento di cercare una soluzione che ristabilisca l’uguaglianza in campo, e perdiamo di vista che anche dinanzi alla legge esistono delle disparità. In più c’è da tenere in considerazione la vista annebbiata dal caso Sterling, che può indurci all’errore di ridurre la vicenda ad un semplice Hackett-Petrucci. La verità è che il presidente federale è totalmente estraneo: non è Adam Silver, e ha molti meno poteri. Il breve processo è stato interamente gestito dalla giustizia sportiva, che ha deferito l’atleta sulla base di una legge abbastanza chiara. La FIP non è responsabile della penalizzazione di Hackett, quanto dell’aver lasciato che l’assurda norma portasse a tutto ciò. Non sembra nemmeno esserci l’intenzione di mettere nuovamente mano a quella parte del regolamento, con l’inevitabile conseguenza di trovarci di fronte ad una condanna analoga in futuro. Non è mancato il coro mediatico degli accusatori. Sterling aveva visto cantare la sua radiazione persino dal presidente Obama, per un caso di minore gravità come quello Hackett non c’è stato bisogno di scomodare Giorgio Napolitano. La principale voce del coro l’ha rappresentata Livio Proli, presidente dell’Olimpia Milano, che ha accusato il giocatore all’indomani della fuga, mettendolo nella condizione del “pentiti, torna sui tuoi passi, oppure la sanzione sarà meritata”. Da apprezzare è la sincerità e l’onestà del dirigente, premiato quest’anno come migliore della categoria dall’Eurolega, il quale ha dato il giusto consiglio al proprio tesserato. I maligni affermano che le dichiarazioni servivano a mettere le mani avanti per giustificare una scelta successiva, il licenziamento per giusta causa di cui si parla nelle ultime ore, nello scenario in cui il giocatore avesse optato per una permanenza in Lombardia. Poco sarebbe stato imputabile all’Olimpia: per una squadra in upgrade un cestista fermo sei mesi, anche se di grosso calibro, risulta in eccesso. L’ipotesi del taglio non sarebbe stata follia o eresia, visto l’onere del contratto. Daniel Hackett non è stato scaricato, anche se la presa di posizione è arrivata in un momento in cui ancora i contorni dell’accaduto erano in ombra. Dopo la prima inchiesta, è lecito aspettarsi una seconda che veda sul banco degli imputati il nostro ordinamento, senza perdere di vista l’origine, altrimenti si finisce per dimenticare il peccato del ragazzo e dipingerlo come martire del sistema. Chiudere il capitolo farebbe solamente male. Abbiamo appurato che il giocatore è stato punito in modo inadeguato. I giudizi legati alla severità della pena è giusto lasciarli da parte. Un appassionato valuterebbe il tutto come eccessivo, un giurista potrebbe specificare che il minimo previsto dagli articoli in questione era di cinque mesi, il massimo di dodici, quindi poteva andare a finire peggio. L’essere mandati in esilio, lontani da un mondo regolato da una legge che non è la medesima per ogni giocatore, è davvero una punizione? E se invece, più che infliggergli un castigo, gli avessero fatto un favore?