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Danilo e Vittorio Gallinari (SportFair) Do you remember? Quando “il Gallo” era Vittorio

Do you remember? Quando “il Gallo” era Vittorio

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Per i giovani che si avvicinano al mondo della pallacanestro, “il Gallo” è Danilo. Danilo Gallinari, da 12 anni in NBA, probabilmente il maggior talento della pallacanestro italiana. Eppure, negli anni novanta, il mondo del basket italiano godeva del canto di un altro Gallo, Vittorio.

Nato a Sant’Angelo Lodigiano nel 1958, Vittorio Gallinari, alto 204 cm, si è avvicinato alla pallacanestro compaginando partite e allenamenti con l’Olimpia Milano e gli studi in Economia e Commercio alla Bocconi. Gallo padre è ricordato come uno specialista difensivo, un “gregario” di lusso, di quelli che non compaiono nelle statistiche o nei vari “hall of fame”, ma aiutano i compagni a vincere. Lo sanno bene Mike D’Antoni e Dino Meneghin, che di fianco a Vittorio hanno vinto scudetti, coppe Italia, Coppa Korac e la storica Coppa dei Campioni, il tutto sotto la carismatica guida di Dan Peterson, uno degli allenatori di pallacanestro più iconici della storia italiana.

Erano altri tempi, ed era abituale vedere giocatori e allenatori condividere lo spogliatorio per diverse stagioni consecutive. Oltre all’amico D’Antoni e alla leggenda di Dino Meneghin, anche altri coetanei di Vittorio Gallinari sono stati parte della storia di quella “Billy”, capace di vincere cinque scudetti o il mitico “triplete” della stagione 1986-87 (Campionato, coppa Italia e Coppa dei Campioni): Roberto Premier e Franco Boselli.

Abbiamo avuto modo di rivivere quegli anni raccontati da Vittorio in persona, che abbiamo intervistato in esclusiva per l’occasione.

BasketItaly: Ciao Vittorio; innanzitutto, raccontaci dei tuoi primi passi nel mondo del basket. Non erano arrivati prestissimo, giusto?

Vittorio Gallinari: “Esatto. Ho iniziato piuttosto tardi, avevo circa 15 anni, e tutto per casualità. Mio fratello lavorava all’ippodromo di San Siro e un ex giocatore dell’Olimpia aveva un cavallo; parlando, gli aveva detto che aveva un fratello alto, e così mi aveva detto di andare a fare un provino. Non avevo proprio idea di pallacanestro, mi avevano preso solo perché ero alto”.

Vittorio Gallinari
Vittorio Gallinari (CC)

BI: Poi, una volta diventato professionista, volevi mollare per dedicarti al 100% agli studi… Meno male che non è stato così!

VG: “Esatto. Dopo il primo anno di Serie A, durante il quale tutti ci davano per spacciati, ma invece eravamo arrivati in finale scudetto con Bologna, volevo dedicarmi all’università. In quell’anno ero riuscito a dare solo un esame, e avevo deciso di dedicarmi q quello, quindi, non avevo preso parte alla preparazione estiva. Furono coach Peterson e Mike D’Antoni a convincermi a continuare con il basket, avevano iniziato a chiamarmi tutti i giorni… Alla fine ero arrivato a un accordo con Dan Peterson, ovvero non partecipavo alle sessioni di allenamento la mattina per poter compaginare le due cose”.

BI: Hai giocato per più di una decade nella stessa squadra e avuto per molti anni lo stesso coach e gli stessi compagni di spogliatoio, qualcosa che oggigiorno sembra più difficile. Com’e cambiato il mondo della pallacanestro da quando tu giocavi ad ora?

VG: “Adesso e praticamente impossibile trovare giocatori e allenatore che siano assieme 2/3 anni. Le regole sono cambiate, ora il mercato è sempre aperto, mentre una volta c’erano solo delle finestre ed era possibile tipo cambiare un americano se aveva un infortunio grave. Adesso trovo che il lavoro di un allenatore non viene valorizzato, perché si tende subito a scambiare un giocatore che non rende come ci si aspettava, mentre una volta il roster era quello e punto, e doveva essere bravo il coach a tirare fuori da ogni giocatore il meglio di sé”.

BI: Comunque, essendo procuratore, il fatto che ci siano più scambi, per te è un vantaggio?

VG: “Sì, in un certo senso lo è, ma molte volte è complicato quando ti trovi dalla parte opposta, ovvero rappresentando il ragazzo che viene mandato via. Cerchiamo sempre soluzioni ottimali per crescere per ogni giocatore, e a volte è difficile perché si chiede il risultato subito, e non si lascia spazio alla crescita personale”.

BI: Quant’è complicato ora il tuo lavoro con l’incertezza che stiamo vivendo per via del Coronavirus?

VG: “Adesso è difficilissimo per tutti, lo è per lo sport in generale, e per la pallacanestro in particolare. Si gioca una partita sì e due no, e poi c’è l’incognita delle serie minori, che adesso sono ferme, perché spesso un giocatore va appunto a crescere e rinforzarsi in categorie inferiori. È un momento complicatissimo per tutti”.

BI: Come descriveresti coach Dan Peterson e Mike D’Antoni in poche parole?

VG: “Dan Peterson è indubbiamente il miglior allenatore mai visto in Italia, perché ha portato un modo di giocare e una filosofia del gioco che non si erano mai visti da noi prima. Mike è una grande persona sia in campo che fuori; durante il mio primo anno a Milano abbiamo vissuto assieme, è arrivato che era già forte, ma poi è migliorato tantissimo fino a diventare una star internazionale”.

BI: Qual è il ricordo più bello della tua carriera da giocatore?

VG: “Sicuramente la vittoria in Coppa dei Campioni nell’87, anche perché avevo ancora la spina nel fianco della finale di Grenoble persa contro Cantù quattro anni prima, quando a due secondi dalla fine avevo la palla del possibile sorpasso in mano, ma avevo subito un fallo, che però non è stato dato, perché c’era stata l’invasione di campo da parte dei tifosi di Cantù, e quindi i direttori di gara avevano deciso che la sfida si chiudeva lì, e l’amarezza era tanta”.

BI: Da giocatore, hai vinto tantissimo a livello nazionale, ma anche europeo. Ti dà fastidio essere ricordato o conosciuto più per essere “il papà di Danilo” che non per la tua brillante traiettoria professionale?

VG: “Ma no, non mi dà fastidio, ma se mi chiamano Danilo per strada, allora un po’ sì… e succede, anche abbastanza spesso! Per il resto no, anzi, sono molto contento e orgoglioso di lui. Io ho fatto quello che ho fatto nella mia epoca; ora è il suo momento”.

BI: Nella pallacanestro si tende a ricordare soprattutto chi segna tanti punti, ma anche i “gregari” sono importanti. C’è qualche giocatore di questa generazione che ricorda le tue caratteristiche?

VG: “E molto difficile nel basket di oggi, perché i giocatori sono cambiati. Io ho chiuso la mia carriera con 1,5/2 punti segnati si media, e andava bene così; ora sono statistiche che non trovi: tutti vogliono segnare. Il nostro coach era stato il primo a utilizzare la statistica +/-, e diceva che la squadra giocava meglio e vinceva di più quando io ero in campo, anche se segnavo poco. Oggigiorno, l’aspetto offensivo è molto più importante”.

Tu giocavi a basket, i tuoi figli anche… tra poco arriverà un nipotino/nipotina; seguirà la tradizione di famiglia?

VG: “A questo punto qua, credo e spero di sì… non c’è due senza tre!”