Ci sono storie e insegnamenti di vita, che vanno al di là del singolo sport, del pallone che entra in un cesto e del parquet di gioco. Esistono storie che raccontano ed esprimono molto più di quello che si possa solo immaginare. La storia dei San Antonio Spurs racchiude un decennio di umanità, sofferenze, delusioni, gioie e grandi trionfi, del sapersi rialzare dopo una cocente sconfitta, stracciando la carta d’identità e concentrandosi unicamente sul lavoro: dedizione, sacrificio e determinazione alla base della dinastia made in Spurs.
Ma torniamo per un attimo indietro nel tempo, di circa un anno: sono le Finals NBA ed in gara 6 San Antonio ha la grande chance di vincere l’anello in casa di Miami, grazie ad una partita gestita e controllata fino a pochi secondi del termine, quando già in Texas era scattato il countdown per stappare le bottiglie di spumante. Nel basket tuttavia nulla è scontato, e clamorosamente l’impoderabile prese il sopravvento: rimonta incredibile degli Heat, che portano a casa vittoria e successivamente il titolo finale. Fine di un’era, addio ai “Big Three”, epilogo ingloriosio degli Spurs e quant’altro ancora, si scrisse nei giorni seguenti. Ora però mandiamo avanti il nastro, e fermiamoci ai giorni nostri: San Antonio elimina Oklahoma, conquista il titolo di campione di Conference, e giunge per la sesta volta nella propria storia nelle Finals, dove incontrerà i Miami Heat.
E’ semplice ma allo stesso modo pressocchè impossibile spiegare con esattezza e precisione, le ragioni del successo del metodo Spurs. Bisognerebbe vivere in prima persona ,anche per pochi minuti, cosa significa far parte di quello spogliatoio, guidato dai veterani Tim Duncan-Manu Ginobili-Tony Parker, a loro tempo istruiti, educati e plasmati dal maestro coach Gregg Popovich, sublime nel dosaggio di bastone e carota per temprare al meglio i propri ragazzi. Prima di tutto uomini veri e successivamente interpreti meravigliosi del gioco della pallacanestro, in grado di migliorarsi incredibilmente anno dopo anno, in barba all’età anagrafica e ad un gioco che si evolve sempre più nella potenza fisica e nell’atletismo straripante.
In questo spogliatoio e in questo tipo di ambiente, in punta di piedi nella scorsa estate, è entrato a far parte Marco Belinelli. Accolto nello scetticismo e nell’indifferenza generale, l’azzurro è riuscito a ritagliarsi uno spazio importante, conquistando la fiducia del proprio head coach e di conseguenza dei propri compagni. Un’annata indimenticabile per la guardia nativa di San Giovanni in Persiceto, che invitato all’All Star Game per il “Three Point Shootout” vince e convince la platea, portandosi in cascina il trofeo di miglior realizzatore da 3 punti della Lega. Scivolamenti difensivi, intensità, capacità di prendersi le proprie responsabilità in fase offensiva ed una sana dose di attributi, hanno fatto entrare Beli nella storia, essendo il primo italiano in assoluto a partecipare alle Finali NBA. Giù il cappello.
Riavvolgendo e mandando avanti il nastro del cammino della franchigia texana, non rimane che parlare di ciò che è successo in questa stagione, vissuta tra l’amarezza del titolo sfuggito e la soddisfazione di essere riusciti ad arrivare nuovamente fino in fondo, per giocarsi la grande rivincita contro gli Heat. Ciò che è accaduto all’interno dello spogliatoio probabilmente non lo sapremo mai, ma se un giorno decidessero di scrivere un libro, sarebbe sicuramente uno dei più grandi esempi ed insegnamenti di vita. Record stagionale della Lega (62 W- 20 L), sofferenza e paura contro i cugini rivali dei Mavs battuti a gara 7, i giovani Portland spazzati via (4-1), i Thunder dell’MVP Durant rimandati al mittente (4-2) per giungere al grande appuntamento da tutti desiderato: la finalissima contro LeBron James ed i suoi Miami. Per Duncan potrebbe essere il quinto successo della sua fenomenale carriera, per Parker e Ginobili il quarto, e anche se non è nel numero dei titoli conquistati che si giudica complessivamente un giocatore, la loro bacheca parla da sola.
Probabilmente questa sarà l’ultima serie in cui calcheranno assieme il parquet di gioco, ma il tempo dei ricordi, delle lacrime e dell’emozione è ancora troppo lontano. Ora è tempo di conquistare l’ultimo grande suggello per fortificare una dinastia forse irripetibile, fondata dai grandi veterani ma rinvigorita anno dopo anno dalla cosiddetta “Unit two” sempre più fondamentale nell’economia di squadra. Non solo Tim, Manu e Tony dunque ma anche Leonard, Diaw, Splitter, Green, Mills, Belinelli: è questo il capolavoro di coach Pop, è questo il segreto dell’era Spurs; rigenerarsi grazie ad un lavoro perfetto di scouting, pescando giocatori non di grande urlo ma adatti al sistema di gioco, disposti a sposare con anima e corpo un progetto per inserirsi perfettamente negli schemi. O dentro o fuori, non c’è la classica via di mezzo.
Che lo show quindi abbia inizio: San Antonio Spurs – Miami Heat, più che una partita, più che una finale, più che una rivincita sportiva.