C’è chi si è svegliato all’alba per essere davanti al teatro Sociale alle sette del mattino, chi ha fatto lo stesso ma ha addirittura viaggiato di notte. Con Steve Nash, da poco più di un mese fra gli immortali del basket, il primo Festival dello sport di Trento ha sicuramente dato un tocco speciale di pallacanestro alla città. Una coda infinita in via Mazzurana per ritirare i biglietti distribuiti dalle 9, appuntamento alle 11. Alle 9.14 quei 600 biglietti a disposizione sono finiti. Qualcuno si è trasferito in piazza Duomo, dove però il maxi schermo non ha dato così tanta soddisfazione, qualcuno si è piazzato sul retro del teatro per vedere Steve Nash all’uscita.
Ma quei 600 fortunati si sono accomodati in platea e balconate per ascoltare la pallacanestro in veste di poesia. Steve Nash si è raccontato a tifosi e appassionati.
“Passare la palla? C’erano tanti giocatori in grado di farlo benissimo e ci sono ancora. Per me è stata una cosa naturale, era normale. In questo devo molto a mio padre, che è stato fondamentale, quando giocavamo insieme mi diceva sempre di passare la palla, mi ha insegnato a essere una persona che vuole fare bene per gli altri”, ha detto durante l’incontro organizzato, come tutto il Festival, da Gazzetta dello sport. Sono 10.355 gli assists nella sua carriera e anche se lui non ama i riflettori, non si può non ringraziarlo per le sue magie.
Un percorso speciale
“Arrivo da una famiglia di calciatori, ma quando ero piccolo i miei compagni giocavano a basket e io volevo giocare con loro, era il momento di Michael Jordan e ho provato: mi sono innamorato, ci giocavo sempre”.
College, poi Dallas, poi Phoenix, poi Los Angeles: “Per me è sempre stato importante il viaggio e quello verso la Nba è stato il viaggio della mia vita, ero sicuro di volercela fare. Quando sono arrivato al College, non conoscevo Santa Clara, che tra l’altro aveva un play molto bravo, per me illuminante. Ho iniziato giocando dieci minuti e a fine stagione giocavo tutto il tempo, anche se non avevo ancora salito tutti i gradini. Sapevo anche di avere carenze, ma mi sono detto che se avessi lavorato ce l’avrei fatta. La mia mentalità è sempre stata la stessa”.
Dallas, un legame umano gratificante: “Un percorso straordinario, la mia opportunità di avere una mia squadra”. Phoenix, gli anni del successo, anche se non ha vinto niente. O meglio Nash ha vinto perché “D’Antoni è stato un coach straordinario: l’Nba di solito è imitazione, ci vuole coraggio a fare una cosa tutta diversa. Phoenix è stato importante per me, se hai 30 anni e non sei altissimo in pochi scommettono su di te. Io mi sono fortificato. Non abbiamo mai vinto? Vero, ma c’è anche altro nella vita e le mie soddisfazioni nella vita le ho raggiunte. Non credo nel rimpianto, tutto succede per una ragione”. I Lakers e la fine della carriera: “Io volevo giocare, ma il mio corpo non ce la faceva. Quando ho smesso ci sono voluti due anni per capire il momento di chiusura, ho ascoltato me stesso”.
L’umiltà
Il re degli assists è stato però due volte Mvp, proprio con la maglia dei Phoenix e il suo nome è nella Hall of fame. Un giocatore vero, che al talento ha saputo mischiare il suo carattere: “Io voglio che tutti stiano bene, sono stato cresciuto così, ho sempre voluto vedere la mia squadra felice, mi importa divertirmi con loro e costruire qualcosa insieme. Phoenix si stava insieme fuori dal campo, le nostre famiglie si frequentavano, oltre alle analisi, oggi tanto evidenziate, c’è lo spogliatoio. Mvp? Mi fa sentire incredibile il fatto che diventi qualcuno per gli altri, un risultato da condividere e che conferma ciò che fai”.