Gianluca Basile. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba ignorante
Giambattista Basile è stato l’uomo che ha contribuito a plasmare il concetto di favola che abbiamo oggi. Non lo sa nessuno o quasi. Ne “Lo cunto de li cunti”, sua opera più celebre pubblicata solo postuma, si trovano le prime versioni abbozzate di quelle che diventeranno La Bella Addormentata e Cenerentola. Queste fiabe però avranno solo in seguito il successo meritato, quando saranno “ripulite” di quegli aspetti dark e di quei barocchismi anche linguistici che si portava dietro l’opera di Basile: erano “fiabe ignoranti” e nello scriverlo pensi che potrebbe essere il titolo di una parodia di Ozpetek, un altro suo film girato in Puglia e anche questo non pare un caso visto di chi ci apprestiamo a parlare.
Gianluca Basile non ha alcuna parentela con l’illustre omonimo eppure vedendo i suoi tiri da lontano, spesso contro ogni logica ma destinati ugualmente a trovare spesse volte il bersaglio, si ha la sensazione che quel tiro ignorante rappresenti la versione 1.0, il prototipo, di quei tiri da tre che sono diventati il fulcro attorno cui spesso ruotano le infinite discussioni di tanti amanti della pallacanestro. Ogni volta che Wardell Stephen Curry III (sì, ha il tre anche nel nome..) mette il suo tiro da distanza siderale con la mano in faccia qualcuno in Italia pensa al Baso e al fatto che forse è nato nel decennio sbagliato. Poco importa perchè forse a lui va bene anche così, non essendo uno che ha messo mai tra le sue priorità il raggiungimento di un certo tipo di successo o di visibilità. Per inquadrare meglio il personaggio vi basti pensare che è uno che sta con la stessa donna da quando aveva diciotto anni e, prima di diventare “il Baso”, il suo apprendistato è consistito nel lavorare nei campi col padre. Insomma, fino ai diciotto anni la biografia di Basile non differiva moltissimo da quella di mio nonno.
Poi arriva la chiamata di Reggio Emilia a far deviare la traiettoria di quel ragazzo pugliese destinatofino ad allora forse più a vivere la vita dei padri che quella di un ragazzo della sua generazione.
Il sospetto a quel punto è che il nostro lasci più per evitare di fare la conoscenza di aratri e trattori che per effettiva convinzione nei suoi mezzi. Anche la Reggiana non è che sia convinta di avere di fronte un enfant prodige tanto che lo spedisce nella squadra juniores e a un certo punto sembra sul punto di mollarlo definitivamente quando la vecchia società di Basile chiede altri soldi. Alla fine sarà il padre di Basile a dimostrare una fiducia nel figlio non scontata mettendoci di tasca sua due milioni di lire per far sì che quel figlio quantomeno abbia una possibilità.
A questo punto di solito in queste storie si assiste a una crescita esponenziale del talento che si avvia così verso una strada lastricata di gloria e successi Sfortunatamente la sceneggiatura scorre meno piana di quanto non accadrebbe in una fiaba.
Basile si rompe, si rompe di nuovo, e quando è pronto a giocare ci pensa su. L’anno prima infatti ha fatto la domanda per i Carabinieri e si avvicina ai venti senza aver ancora giocato tra i professionisti. Ancora nel limbo si divide tra campo e accademia per un po’. Meglio sarebbe dire tra campo e panchina giacché il doppio impegno non entusiasma l’allenatore dell’epoca tanto che ne avvallerà il prestito a Chieti, la provincia sportivamente meno interessante di una delle regioni sportivamente meno interessanti (detto da chi nella suddetta regione ci è nato).
Qualche mese prima Basile si era proposto anche a Dodo Rusconi di Varese che rimase impressionato ma gli disse di no per il semplice fatto che si sentiva già coperto nel ruolo della coppia Poz-A.Meneghin. Meneghin avrebbe dovuto essere lo sparring partner in quel provino ma non si prestò. Questo aneddoto sarebbe più avanti stato motivo di sfottò tra i due alimentando quella piacevole sensazione che i due fossero delle persone normali, due con cui avresti potuto prendere qualcosa da bere una sera. Questa sensazione è ancora più rara averla oggi e, forse, in barba a tutti i discorsi tecnici, il motivo principale per cui oggi ci riesce più difficile provare empatia per un giocatore o una squadra.
A Reggio Basile ci metterà comunuque poco a scaldare i cuori. In due anni raggiunge una promozione cui contribuisce sostanzialmente con un 68,7 % da due. Pare così tanto un gigante tra i bambini da guadagnarsi la prima chiamata di Messina, alla sua prima avventura in Nazionale. E’ il 96 e la partita contro North Carolina è interessante più per vedere quell’highlight vivente che è il primo Vince Carter che per altro. Basile e la Nazionale si conoscono. Presto arriveranno i primi appuntamenti seri e la storia d’amore verrà vissuta in pieno più avanti.
Arrivata anche una isperata salvezza con Reggio è ormai chiaro che per vincere bisogna traslocare in una città vicina: Bologna (come cambiano i tempi..). La scelta è più ardua di quella di Sofia in un romanzo, poi film, discretamente importante. I tempi sono stretti ma tutto sembra orientare la scelta verso la Virtus di coach Messina. Anche il padre, interpellato via telefono spingerebbe il figlio verso le “V nere”. Basile però sulla sirena del mercato, con un discreto coup de thèatre, sceglie i cugini della Fortitudo.
Leitmotiv nella carriera del ragazzo di Ruvo è il fatto che si debba prima ambientare, volente o nolente. Nel primo anno è un giocatore di rotazione in una stagione finita nello psicodramma sportivo della semifinale di Treviso.
Il 1999 è uno degli anni più felici del nostro basket e, parallelamente, del Baso. In estate arriva l’Europeo vinto in cui è chiara ormai la sua maturazione anche come uomo pesante in spogliatoio. Nasce il campione Basile e nasce anche qualcosa di forse più importante: un figlio. Da questo evento nascono l’iconica esultanza di squadra con le mani a mimare una culla e il fiocco rosa attaccato in spogliatoio e creato dai compagni con una Gazzetta dello Sport come nei migliori Art Attack, giusto per citare un altro feticcio nato nel periodo.
La vittoria ha delle ripercussioni positive anche nel club. La Fortitudo costruisce sul trio Basile, Galanda, Myers tornati ancora più affiatati dalla trionfale avventura in azzurro. La storia della Fortitudo ha sempre alternato alti molto alti a periodi molto bui. La stagione del primo scudetto va in archivio con solo 4 partite perse sulle quaranta totali. Quell’ottovolante umorale che sono le Aquile però subiscono l’anno dopo l’immediato contraccolpo. L’estate difficile preannuncia il successivo addio di Carlton Myers (uno che alle Olimpiadi sarà il primo portabandiera di colore italiano nel 2000). La sconfitta arriva in finale dove i campioni d’Italia perdono con i cugini che quell’anno vincono tutto, in Italia e in Europa.
Si parla di Nba ma i tempi sono diversi. Contrariamente a quanto si potesse pensare l’ancora relativo feeling tra Nba e campioni del Vecchio Continente era reciproco. Quando girarono le voci su Basile-Galanda agli allora New Jersey Nets fu lo stesso Basile ad allontanare l’ipotesi. In quegli anni il basket d’Oltreoceano era percepito come un basket essenzialmente fisico contro la purezza tecnica europea. Fortunatamente queste definizioni sommarie hanno oggi fatto il loro tempo e le differenze, quelle che permangono, vengono affrontate con maggiore oggettività da una platea più ampia e, spesso, più qualificata.
Alla sequela di finali perse fece seguito, come in una favola, il trionfo dell’eroe. Basile vince da capitano la finale forse più bella (sicuramente una delle più tirate) nel recente passato del basket nostrano. La vittoria arriva con una tripla sulla sirena che sembra il classico “tiro ignorante” brevettato in quegli anni di cocenti sconfitte sul filo ma, con una certa ironia, il destino vuole che a tirarla sia Ruben Douglas su passaggio proprio del pugliese.
Il sipario sta per chiudersi sull’epopea fortitudina. Basile lascia l’Emilia e va a Barcellona per avere quello che gli manca l’Europa. L’Europa arriverà ma, cosa meno scontata, arriverà anche l’affetto dei tifosi spagnoli. Il suo addetto stampa racconterà più di una volta delle spasmodiche richieste ricevute da una ragazza che desiderava una ciocca di capelli dell’idolo. Non sappiamo se l’abbia mai ricevuta. Non sappiamo neanche perché la volesse: forse voleva fare una bambola vodoo da usare in caso di passaggio al Madrid.
Il ritorno in Italia è in quella Cantù dove anni prima il “tiro ignorante” fu definitivamente brevettato, in barba alle indicazioni di un Repesa sull’orlo di una crisi di nervi. Sorprendentemente l’avversario di mille battaglie diventa l’eroe del Pianella anche in serate europee come quella contro il Bilbao. L’idillio dura però poco. La scelta di andare a Milano gli fa appiccicare la temuta etichetta del “core ‘ngrato”. Forse qualcuno in Brianza si era fatto mandare la bambolina vodoo di cui sopra fatto stà che in maglia Olimpia per la prima volta Basile pare condannato ormai a essere all’ultimo giro di giostra.
A sorpresa sarà la chiamata del vecchio compagno Pozzecco, ora allenatore, a concedergli uno dei possibili finali di carriera che un giocatore importante si augura. A Capo d’Orlando Basile trova la sua ultima incarnazione. Capo diventa l’ideale palcoscenico per l’ultima recita. Il luogo giusto dove fare calare il sipario dopo l’ultimo scrosciante applauso.
Nel 2004, quando il basket italiano viveva la sua età dell’oro in cui le squadre erano le più forti della storia sul campo e le divise avevano un design inspiegabilmente più moderno di quelle che sarebbero venute dodici anni dopo, Basile diventava un pezzo fondamentale di una squadra che genererà tantissima letteratura postuma e, soprattutto, una medaglia d’argento. Nel 2004 a Atene, nonostante la memoria collettiva l’abbia rimossa, si partì con due sconfitte e tante polemiche per poi risorgere, come l’araba fenice italiana sportivamente sempre sembra destinata a fare. Oggi, sedici anni dopo, all’esplosione di positività dei primi match segue con una continuità di cui faremmo volentieri a meno una negatività bagnata di nostalgia. La nostalgia incarnata ormai da “quella partita” e quella vittoria contro gli Usa. Per molti semplicemente “quella in cui Basile non la fece vedere a Lebron” (con forse una voluta tendenza all’iperbole).
Gian Battista Basile qualche anno fa ha visto compiersi il suo riscatto. Parte della sua opera è diventata un film passato a Cannes, e attori celebri hanno dato forma alle sue fantasie, Salma Hayek ha persino mangiato il cuore di un drago nella trasposizione di una delle sue storie.
Magari un giorno, in una delle tante interviste a caldo dopo un match, sentiremo dire da qualcuno che nello stato di Hollywood ci gioca, che quella tripla così è “inspired by the Basile’s tiro ignorante”. Ma forse quel giorno colui che il tiro ignorante l’ha inventato sarà troppo occupato a correre per i campi della sua Puglia per prestare attenzione alle dichiarazioni di un piccoletto che gioca dall’altra parte del mondo.
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