Lunga intervista della Gazzetta dello sport a Mike D’Antoni, attuale coach di Houston. Da Harden a New York, passando per la questione Alessandro Gentile
Mike, un anno fa ci disse che voleva a tutti i costi tornare nella Nba: contento di guidare i Rockets?
«Non avevo nessuna altra proposta (ride, ndr). E meno male che Houston ha bussato alla mia porta. In questa Lega non ci sono molte possibilità di lavoro. Mi ritengo fortunato».
Quando le viene offerta una panchina, guarda le caratteristiche della rosa o firma incondizionatamente?
«Un’occhiata la do, ma le chance di lavorare sono così poche che prendi quello che c’è nel piatto. E sono felice, non mi fraintenda. E comunque quando mi hanno scelto, la società era in piena sintonia con la mia filosofia di gioco. Insomma, c’è un progetto comune che si è appena avviato. Ora dovremo lavorare insieme per cercare i pezzi giusti che meglio si adattino a questa idea».
Ha modificato il ruolo di Harden: ora fa il play. Lui ha accettato e detto di avere dentro di sé un po’ di Steve Nash.
«E’ bravissimo nel pick and roll, ha una straordinaria visione del campo e segna tantissimo. Sicuramente uno dei migliori che abbia mai visto. Può diventare un grande regista: vede il gioco con gli occhi del play, capisce esattamente ciò che vogliono i compagni e sa come servirli. I suoi numeri sono eccellenti (31.8 punti, 12.4 assist). Continueremo a impiegarlo così».
Ma il suo ruolo è davvero diverso rispetto al passato?
«Non penso si sia modificato drasticamente. Diciamo che porta più spesso la palla e che ha una missione precisa nel team: deve coinvolgere di più tutti gli altri, senza però perdere troppo la sua vera identità».
Perché non è arrivato Gentile?
«Non lo so. Non è il mio lavoro portarlo qui, io faccio l’allenatore non il direttore sportivo. E mi dispiace, perché sarebbe stato un italiano in più nella Nba. Non saprei spiegarlo: evidentemente i nostri manager volevano seguire una certa strada e così hanno fatto».
Ma in questa rosa le sarebbe servito uno come lui?
«Senz’altro. A me piace moltissimo, è un ottimo atleta con grande talento e senso del gioco. E poi viene dalla famiglia Olimpia e i rapporti con Milano sono eccellenti».
Nella Nba ormai molte squadre vanno ad altissima velocità, proprio secondo la sua filosofia che anni fa veniva criticata.
«Sì, il gioco si è trasformato. Oggi se vuoi battere Golden State, Cleveland, Oklahoma City e i Clippers, devi correre e tirare da tre. Altrimenti la spunterà la difesa avversaria. Forse è solo la mia opinione, ma se non vai sparato non vinci le partite. Non più».
Le fa piacere che la sua idea dei «Seven seconds or less» stia diventando popolare?
«Certo, ne sono contento. E’ la prova che non sono completamente pazzo, come sosteneva qualcuno. Allora, quando allenavo Phoenix, aveva funzionato. Ero nel posto giusto, con un team perfetto per quel sistema e una società che credeva nella mia teoria».
Le sue squadre sono accusate di non essere formidabili in difesa. Contro i Lakers avete subito 120 punti, troppi.
«Abbiamo avuto degli alti e bassi. Nelle due partite con Dallas siamo andati molto bene (due successi, ndr). E con i Cavaliers non siamo da bocciare (sconfitta 128-120, ndr). Sto ancora sperimentando, ho variato differenti quintetti. Ma quando affronti i campioni Nba devi elevare il tuo gioco e noi non siamo a quel livello. Però abbiamo avuto pure l’occasione per vincere».
Quanto è stato difficile allenare i Knicks?
«New York è una piazza pazzesca, dove non c’è pazienza. Ma ormai tutte le franchigie sono così e a pagare è sempre il coach. E’ una professione durissima».
Le è mancato non andare in panchina?
«Oggi sono felice come un bambino. Ho fatto una carriera incredibile, in Italia da giocatore, poi come coach, quindi qui nella Nba. Che cosa posso chiedere di più?».