C’era una volta una lega in cui i padroni assoluti erano i “Big Men”, una lega che ha ammirato le gesta dei vari Chamberlain, Abdul Jabbar, Russell, Olajuwon, O’Neal. Negli ultimi anni stiamo assistendo a una metamorfosi del gioco, con in campo quintetti sempre più piccoli, schemi che favoriscono sempre di più tiri da oltre l’arco e lunghi che per sopravvivere devono adattarsi a un gioco meno dimensionale.
In questo scenario ecco che si sta affacciando sempre con maggiore consistenza una nuova figura, quella della combo guard; se prima l’identikit del playmaker facilmente combaciava con la figura degli Stockton e Nash di turno – a loro modo dominanti nella lega, ma che rappresentavo l’eccezione alla regola – e tale ruolo era ambito più dell’oro, ecco che ora possiamo notare quasi un esubero di “play”, i quali stanno sempre di più differenziando il loro gameplay.
Se nel 2011 fu Rose – al quale in questo momento ogni amante della palla a spicchi non può non essere vicino – a prendersi la scena con annesso titolo di MVP della stagione a suon di penetrazioni indifendibili, assist in transizione e giocate difensive di assoluto livello, in questa stagione sono altri due playmaker ad occupare le prime pagine: Stephen Curry e Russell Westbrook.
Il numero 30 (ph. Keith Allison) dei Golden State Warriors tra trascinando con la sua leadership e le sue giocate al di fuori dello scibile umano la banda di coach Kerr al miglior record della lega; di certo il supporting cast è quanto di meglio si possa immaginare, ma Steph riesce a coniugare una visione di gioco degna del miglior Nash a una balistica veloce, affidabile e dall’ampio raggio (ne è la prova la vittoria al Three Points Contest) nonché a una difesa di certo non blanda. Nessuno obietterà nel caso in cui ad alzare il titolo di MVP sia proprio l’ex di Davidson.
Westbrook invece sta riuscendo in maniera anche parzialmente inaspettata a tappare le falle create dalla stagione tribolata di Kevin Durant. A suon di triple doppie è riuscito a riportare i Thunder in zona playoff. Il carattere all’ex UCLA di certo non è mai mancato, ma in parte la presenza di KD e in parte una visione di gioco tutto fuorché di un playmaker non gli hanno mai permesso di essere inserito nel gotha dei giocatori in attività… almeno fino ad ora.
Se diamo uno sguardo a tutte le principali contender, nessuna ad eccezione di Houston e in parte San Antonio hanno nello slot di PG titolare un giocatore sotto la media: in alcuni casi sarà un play vecchio stampo ad avere il timone (Paul, Conley), in altri casi un play di nuova generazione (Lillard, Lowry) senza dimenticare gli ibridi (Irving, Wall, Rondo). La lega mai come adesso è davvero nelle mani dei playmaker.
Stefano Minerba