La redazione di BasketItaly augura a tutti uno splendido 2015 regalandovi una review dei simboli cestistici a stelle e strisce dell’anno appena trascorso:
Marco Belinelli: Un italiano nell’olimpo del Basket: dieci anni orsono una simile affermazione poteva solo destare ilarità tra appassionati e non; Marco Belinelli da San Giovanni in Persiceto è riuscito a tagliare questo traguardo, e lo ha fatto in due modi diversi. A febbraio, durante l’All Star Weekend, sbaraglia una strenua concorrenza e si aggiudica il Three Points Shootout Contest, un riconoscimento ancora più importante per un atleta che deve la sua permanenza negli States proprio a questo fondamentale – oltre ovviamente alla sua totale abnegazione al lavoro. A giugno il Beli riesce a superarsi ancora, essendo uno dei tasselli che hanno portato alla conquista del quinto titolo agli Spurs.
Kevin Durant: Nella lista di cose da fare il trofeo di MVP della stagione era probabilmente al secondo posto in ordine di importanza. Ora a KD35 manca solo il riconoscimento più importante, la conquista del primo titolo che gli consentirebbe di passare dalla schiera delle leggende senza anello (Barkley, Stockton, Malone, Nash) a quella dei campioni titolati. Incredibile sia dentro che fuori dai parquet, la sua lettera di ringraziamento alla madre, alla squadra e a tutto il suo entourage rappresenta ciò che di più puro possa derivare da una manifestazione sportiva.
San Antonio Spurs: Vincere cinque titoli in quindici anni se non è dinastia poco ci manca. La vendetta è un piatto che va servito freddo e la squadra del Texas non solo si è presa la rivincita delle Finals 2013 sugli Heat ma hanno sancito anche la fine del loro ciclo. Le chiavi di questa serie di successi non possono essere che due, Tim Duncan e Coach Popovich. Il lungo nativo delle Isole Vergini non può essere paragonato al buon vino (ndr più passano gli anni e più migliora) solo perché sin dal suo esordio in NBA ha offerto standard altissimi; Pop invece è riuscito a portare al successo i suoi mutando drasticamente i dogmi del team. Negli anni 2000 gli Spurs era famosi per le “Twin Towers” e il loro spietato gioco difensivo – che in taluni casi ha superato persino i limiti – dieci anni dopo la franchigia è riuscita ad offrire il gioco offensivo più fluido tra tutte e trenta le compagini NBA.
Team Usa: Vincere il Mondiale era pronostico alquanto condivisibile ma dominarlo con seconde e alcune terze linee era difficile da immaginare. La mancata sfida finale con i padroni di casa della Spagna ha forse tolto epicità al cammino, ma un tabellino immacolato e vittorie con margine abbondantemente superiore alla doppia cifra ancora una volta attestano la superiorità del basket “made in USA”. Coach K ha plasmato un gruppo che a prescindere dagli interpreti riesce a massimizzare lo stile di gioco americano anche in chiave FIBA e quando – senza i vari James, Durant, George e co – ti ritrovi comunque una batteria di talenti capeggiata da Steph Curry la strada forse parte già in discesa.
Kobe Bryant: Tornare dopo un terribile infortunio alla sua età già non è cosa da tutti, tornare ad estasiare i palazzetti americani è cosa solo da extraterresti. Kobe probabilmente non riuscirà a vincere il suo sesto anello, eguagliando così “His Airness” Michael Jordan, ma perlomeno è riuscito a superarlo – con le dovute precisazioni del caso – nella classifica scorer All Time, stabilendosi al terzo posto solitario… Karl Malone non è così lontano.
Stefano Minerba