Definirlo un ottimo documentario è sbagliato, banale ed inutile. Quello di Bobby Jones è un omaggio alla pallacanestro e alla passione che gli atleti mettono giornalmente sul parquet, ma anche la celebrazione del legame creatosi con la città di Roma. Quanti ragazzi americani di talento sognano di giocare in Europa? Pochi, eppure per la maggioranza arriva il momento nel quale il Vecchio Continente si rivela essere l’unica opzione disponibile. Se si vuole vivere grazie alla pallacanestro, bisogna fare le valigie e ricominciare. Occorre adattarsi, non solo ad un’altra tipologia di basket, ma anche ad una nuova visione della vita. Ed è proprio l’aspetto umano dell’attraversamento dell’oceano a farla da padrone.
Un viaggio di 90 minuti che traccia un ritratto inedito degli americani, in completo contrasto con ciò che dall’esterno ci sentiamo ripetere. Siamo stati abituati a vederli come il nemico dal quale difendersi, come un gruppo di persone che mette in ombra e ruba il posto ai nostri connazionali. In realtà, non è così: sono esseri umani che per salvaguardare un sogno, non più realizzabile nel paese d’origine, vivono lontani dalle proprie famiglie. Successo e denaro non arrivano automaticamente. Solo per gli atleti di vertice dell’NBA risulterebbe semplice, per gli altri c’è da rimboccarsi le maniche e lavorare duramente. Non mancano gli imprevisti: momenti di crisi, difficoltà nell’ambientarsi, stipendi che arrivano in ritardo. Mentre i primi due ostacoli fanno parte della natura umana, l’ultimo deve farci riflettere. Le storie di questi ragazzi, costretti ad abituare se stessi e le proprie famiglie a qualcosa di eticamente poco corretto, ci lasciano senza parole, soprattutto perché le istituzioni del basket italiano ed europeo ritengono ciò normale. C’è tutto nel documentario di Bobby Jones anche dal punto di vista prettamente cinematografico. Si passa dal forte impatto emotivo di una chiamata Skype, unico strumento attraverso il quale un padre è in grado di vedere la propria figlia lontana migliaia di chilometri, alla comicità del racconto che vede protagonista il traffico, la cucina e la vita notturna italiana. Non poteva mancare la cornice perfetta, una normale partita di campionato, a dare al prodotto l’impronta del backstage: le esperienze narrate normalmente non le vediamo, ma in campo hanno comunque il loro impatto. Un lavoro, quello visto nella prima aperta al pubblico, ospitata dal Cineclub Detour, pensato dal giocatore quando ancora militava nelle file di Pistoia. Pagine di un blog personale tradotte in un documentario capace di coinvolgere chiunque, privo delle esagerazioni americane tipiche del genere. Non è necessario conoscere il basket per comprendere pienamente i messaggi, chiari sotto ogni punto di vista. Nulla è lasciato al caso, nemmeno la condizione nella quale vivono i giocatori della D-League che pur di continuare ad inseguire l’NBA rinunciano a maggiori entrate. Così come non è dimenticato l’altro mondo collegiale, quello che sta sotto la Division I, composto prevalentemente da giocatori lontani dal professionismo. In definitiva un’ora e mezza che ricorda a tutti come del lato umano della pallacanestro sia impossibile aver letto, sentito e visto abbastanza.