Il 28 marzo 2003 fu una delle ultime occasioni in cui Kobe Bryant e Michael Jordan si incontrarono come avversari su di un parquet Nba. Finì con 55 punti dell’allora numero 8 gialloviola, 42 arrivati nel solo primo tempo. Quel giorno fu chiaro a tutti che
se mai fosse esistito qualcuno in grado di superare Jordan, almeno nel numero di punti, quello era quel ragazzo cresciuto in Italia e che doveva il suo nome ad una bistecca. Poco importava se in quella partita MJ, agli sgoccioli della sua leggenda, fosse l’unico motivo di interesse in dei Widards che, senza lui, erano capaci di ben poche magie in campo (a parte lo sparire dalla contesa già nel primo quarto, magia che riusciva benissimo a quella Washington se privata di Michael..).
Il fatto che a distanza di più di dieci anni ci ritroviamo a celebrare il sorpasso mette in luce l’importanza che è arrivato oggi ad avere Bryant nel mondo Nba. A prescindere dai numeri Kobe è l’ultimo giocatore con tale bagaglio di personalità da poter aspirare a ricoprire il ruolo di anello di congiunzione tra due diverse generazioni ed, in generale, tra due diverse leghe. Diverso da altri campioni che pure hanno attraversato i cambiamenti della lega, adattandosi quasi ad essi (vedere ad esempio Duncan), Kobe, complice una personalità poco incline all’adattamento che lo porta a cercare costantemente di imporre se stesso sul contesto in cui agisce, è rimasto ai vertici della Nba non solo sul parquet ma anche fuori. Aiutato anche da un mercato enorme come quello di Los Angeles il figlio di Jellybean, è un brand che va oltre la singola prestazione in partita ed il contratto in essere, esagerato o meno, e lì a confermare il suo status di icona pop che va a braccetto con il suo essere leggenda della palla a spicchi. Kobe questo lo sa: sa di essere un marchio e a questa consapevoezza aggiunge un costante desiderio di esserlo. In maniera intelligente, con l’estrema meticolosità che lo contraddistingue, continuerà a farlo presumibilmente anhe a carriera finita folgorato, a suo dire, da quel Giorgio Armani che ha creato il suo impero alla soglia dei quaranta.
Sportivamente la storia di Kobe e dei suoi Lakers è fatta di sfolgoranti vittorie (tante) e tristi cadute (necessarie comunque in ogni epopea, non solo sportiva). Arrivato ai Lakers direttamente dal liceo su intuizione di Mr.Logo Jerry West, che se lo accaparrò scambiandolo con gli Hornets, a cui in cambio andò quello che restava di quel grande giocatore chiamato Vlade Divac. Kobe ha nella sua carriera ha giocato con tanti grandi e grandissimi, diventati tali anche grazie all’influsso della sua grande leadership (con tutto ciò che ne consegue..). Fa sorridere pensare che affianco a questi talenti si possono annoverare tra i compagni di spogliatoio di Bryant anche alcuni dei più clamorosi flop della storia da Smush Parker a Kwame Brown. Nonostante ciò Kobe ha alla fine sempre mantenuto un rendimento da star, quasi un moderno Spider Man, elettrizzato da quei grandi poteri da cui derivavano sempre maggiori responsabilità. A differenza di altri campioni della sua generazione a dispetto, o forse proprio a causa di tale debordante carisma, non riuscirà e forse neanche vorrà fare il salto in panchina. D’altronde non è diventato il terzo marcatore della storia Nba delegando gli altri e lo dimostra, prima ancora della mole di tiri che prende ogni sera, quel body language quasi jordaniano(!) retaggio dell’amore-odio con Phil Jackson.
Costretto dagli infortunii ha trovato altre strade per reinventarsi (parole sue) per questo difficilmente scomparirà mai davvero del tutto da quel mondo che lo ha creato e alla cui creazione ha egli stesso contribuito, proprio come quel Jordan da lui superato e che è oggetto, oggi come ieri, di continui confronti a cui nessuno che dei due si è mai sottratto. Phil Jackson organizzò il primo incontro tra i due e leggenda vuole che il giovane Kobe si presento ad His Airness con un sobrio:” posso romperti il c**o quando voglio uno contro uno”.. Da allora il duello dialettico tra i due non si è mai fermato animato da frecciatine ma anche da un profondo rispetto reciproco e alimentato da quel rammarico di non essersi potuti scontrare quando erano entrambi al massimo del loro livello. Ma allora alla fine chi è il migliore tra i due? Jordan a fine carriera fu capace di toccare i 40 dopo che nella partita precedente aveva fatto “uovo” contro Indiana. Era l’ennesima rinascita dopo un susseguirsi di ritiri e ritorni. Bryant è tornato quest’anno, almeno a livello di numeri, ai suoi livelli mettendone trenta già nella prima partita vera. Da veri dei del basket entrambi hanno attraversato morti e resurrezzioni sportive più di Goku in Dragon Ball. Ma allora è meglio Kobe o MJ? Certi discorsi da bar reggono fino ad un certo punto ma il gioco stuzzica la fantasia e ci porta a notare l’esistenza di tre schieramenti nettamente distinti.
1) Il Kobeista di ferro- Di solitò nato a metà anni novanta tende ad identificare la nascita della sua passione per il basket con la figura di Bryant e fa fatica a provare sincera affezzione per Jordan perchè nell’ unica partita di Michael in cui si è sentito emotivamente coinvolto in maniera diretta Jordan era in squadra con un coniglio ed un papero animato(comunque decisamente migliori dell’intero roster dei 76ers..)
2) Il “Moderato”- E’ diplomatico e davanti alla scelta si sente come un bambino costretto a scegliere tra la Nutella e la Coca-Cola, si difende ricordando come i due siano in fondo prodotti di contesti diversi e sostanzialmente se la cava così.
3) Il Jordaniano di ferro- Michael Jeffery Jordan è considerata un’entità ultraterrena,, l’archetipo del basket, trascendente il gioco. La sua equazione è Jordan uguale pallacanestro. Se provate a convincerlo dell”esistenza di novemila ragioni-punti per preferirgli Kobe lui ha già pronte 48 milioni,di ragioni s’intende, per sconfessarvi.
Per un confronto tra i due operato sicuramente con maggiore competenza e cognizione vi rimandiamo a quanto scritto sull’argomento da Phil Jackson nel suo “Eleven Rings”. Nel frattempo fateci sapere voi da che parte state. Noi , nel dubbio, pagheremmo per essere anche solo dei Kwame Brown che, nonostante i macroscopici limiti, è riuscito a scendere in campo con entrambi. Insomma scarso sì ma sfortunato sicuramente no.