Trascorse due settimane dal kick-off la franchigia che suscita maggiore interesse tra gli appassionati NBA è indubbiamente una sola, i Cleveland Cavaliers.
A Cleveland è tempo di grandi manovre: il ritorno di King James ha ritrasformato i Cavaliers da team da lottery a contender, ma non è stato il solo grande cambiamento in Ohio. L’approdo di coach Blatt , guru in Europa, è stato accolto da molti insider con scetticismo e le prime opache prestazioni dei Cavs hanno dato adito a numerosi dubbi. La squadra è in rodaggio e non poteva essere altrimenti; anche gli Heat di quattro stagioni orsono partirono con un record dopo i primi venti incontri intorno al 50% per poi collezionare quattro Finals e due anelli.
Blatt è un maestro sia in fase difensiva che in quella offensiva, ma il suo playbook di matrice europea forse non è quello che meglio si addice a un team con non solo un “go to guy” ampiamente designato, ma con la stessa stella a detenere ampiamente la leadership umorale e carismatica della franchigia.
I maggiori dubbi provengono però dal roster: nonostante una serie di trade che hanno sconvolta la rosa del team, questo pare essere scoperto in ben due posizioni, quella di centro e soprattutto quella di guardia. Sotto le plance c’è un sovraffollamento di ali forti di livello (Love, Thompson, Marion e all’occorrenza lo stesso James che tanto ha apprezzato questo spot nelle stagioni a Miami) ma solo un centro, Anderson Varejao, il quale oltre a non essere di certo un fattore rappresenta una forte incognita a livello fisico, poiché spesso vittima di infortuni. Il malessere tattico però è ancora più evidente nel ruolo di guardia, dove Waiters rappresenta sì un giocatore su cui poter fare affidamento, ma le cui caratteristiche tecniche mal si sposano con la “first unit” stabilita dal Prescelto. Ecco quindi prefigurarsi per lui un ruolo da sesto uomo, posizione che meglio può far esaltare le sue doti da penetratore, mascherando i suoi limiti nel “catch and shoot” nonché nel gioco di squadra; il problema scaturisce però dalla presenza in quintetto al suo posto di Marion, veterano affidabilissimo ma non proprio per costituzione fisica, caratteristiche di gioco, dolcezza nel rilascio nonché una miriade di altri fattori la guarda di riferimento per una contender. Se infine vogliamo aggiungere il buco nel ruolo di backup di Irving (Della Vedova, peraltro costretto ai box per almeno un mese, a stento può essere accettato in un panorama NBA) la situazione non appare florida come poteva presagirsi.
Le analogie con i primi Heat appaiono quindi sempre più evidenti: anche quattro anni fa la squadra di Spoelstra non disponeva in tutte le posizioni di giocatori di livello (Joel Anthony su tutti), la panchina non offriva particolari contromosse tattiche agli avversari e uno dei maggiori talenti offensivi (Bosh in quel caso) doveva adattarsi a un tipo di playbook completamente diverso da quello giocato fino ad allora.
In attesa dei sicuri playoff possono bastare gli “assoli” dei big three, capaci di fatturare da soli anche più di 80 punti a partita, ma quando il gioco si farà più duro, oltre a essere necessaria una maggiore alchimia nel team, pare evidente un intervento sul mercato per attenuare le carenze di un roster stravolto appena la scorsa estate.
Stefano Minerba