Capo d’Orlando. L’orologio del municipio segna le 12.30, anzi qualcosa in più. È sabato, c’è il sole e fa caldissimo nonostante sia Ottobre. Suona la campanella ed i bimbi escono da scuola festanti: chi corre ad abbracciare i propri nonni, chi urla, chi cerca il proprio papà, chi, fra i più piccoli, esce dalla porta piangendo perchè la maestra lo ha sgridato.
C’è anche chi, correndo insieme all’amichetto, finge di avere un pallone da basket in mano e idealizza un canestro al posto dell’albero, simulando un 1vs1 con tanto di commento in sottofondo: “Laquintana, palleggia, si libera dell’avversariooo, caneeeestroo”. Poi lo stesso bimbo inciampa sul gradino del marciapiede, cade per terra e si becca la sculacciata del padre, che lo rimprovera per aver sporcato il bermuda e per essersi provocato una ferita al ginocchio… In realtà una delle tante, piccole ferite che chiunque, da bimbo, si è fatto giocando a palla con gli amici.
Capo d’Orlando, un paese che vive di pallacanestro, un paese in cui gran parte della gente non aspetta altro che la Domenica per andare al palazzetto a vedere i propri beniamini giocare per la propria maglia: una passione che dura da decenni, sin da quando la squadra del paese giocava proprio nel cortile di quella scuola elementare. Giocatori orlandini, casacche e calzettoni old style ed emozioni che soltanto chi era presente potrà raccontare. Noi invece, ragazzi della nuova generazione, ricordiamo un’Orlandina ben più giovane, che muoveva i suoi primi passi verso il grande basket al PalaValenti, e che emozionava tutti, grandi e piccini, negli entusiasmanti derby contro S.Agata, Patti e Cefalù. Il resto è storia ben più recente, e i ragazzini di oggi, chi più, chi meno, ricordano ancora le triple di Keith Carter (in entrambe le versioni), le schiacciate di Howell (anche lui, in entrambe le versioni) e le giocate di Pozzecco, prima che tutto finisse e poi, in poco meno di un anno, ripartisse da zero.
Ma quelli piccoli, quelli davvero Piccoli, per intenderci quelli che oggi vediamo uscire festanti dalla scuola elementare di fronte al Municipio, Fantozzi, Carter e Pozzecco non possono ricordarseli, ma in compenso domani sera avranno l’opportunità e la fortuna di vedere i Grandi (del basket) giocare nel proprio paese, quelli che guardi in televisione e che mai potresti immaginare di vedere dal vivo, distanti pochi centimetri, nel tuo palazzetto.
I Piccoli non se ne renderanno conto, loro (forse) si accontentano di esultare ad ogni canestro biancoazzurro e di gioire, se si vince, a fine partita, chiedendo ai genitori quando sarà la prossima al PalaFantozzi. Un giorno magari lo racconteranno ai propri figli.
Gli altri, tutti gli Altri, da domani dovranno essere ancor più orgogliosi del proprio paese e dello spettacolo che andranno a vedere, indipendentemente dal risultato finale (anche se per primo io, lo ammetto, sono principalmente interessato ai 2 punti che allo spettacolo).
L’Orlandina Basket, il simbolo di Capo d’Orlando e della Sicilia intera in Serie A, torna finalmente dopo 6 anni nell’Olimpo del basket. Un ritorno molto più rapido del previsto, persino il più inguaribile ottimista (uno in particolare, in effetti, è facile individuarlo…) oggi, ripensandoci bene, dovrebbe voltarsi indietro, fare un sorriso e meravigliarsi.
E così come il bimbo sculacciato dal padre di cui sopra, che con entusiasmo giocava l’1vs1 contro il suo coetaneo, l’Orlandina Basket si è rialzata con fatica, ma è ripartita con la stessa voglia di sempre, correndo più veloce che mai per tornare a giocare dove gli compete. La ferita (quella dell’Orlandina) forse non si è rimarginata del tutto, probabilmente la cicatrice resterà per sempre perchè lo scippo è stato troppo grande, e chi ha vissuto pienamente quegli anni ma sopratutto questi ultimi 6 anni lo sa bene. Ma come ha detto Mario Boni (uno, a dire il vero, non amatissimo a Capo d’Orlando… Hollywood Robinson, Do You Remember?): “Io sono come la gramigna; quella, anche se bruci il campo, rinasce. Più forte di prima”.
Buon campionato a tutti.